a cura di Valentina Biondini, appassionata di arte e letteratura

Nori (Eleonora) de’ Nobili è una pittrice e poetessa di origini marchigiane, la quale trascorse metà della sua vita in manicomio.Nori, primogenita di quattro figli, nacque a Pesaro nel 1902 in una famiglia molto abbiente con la quale era solita trascorrere le estati della sua infanzia presso la bellissima casa nota come “Villa Centofinestre” di Ripe, un paesino della provincia di Ancona.

Il suo interesse per l’arte si manifestò sin da giovanissima e l’occasione per coltivarlo e approfondirlo si presentò nel 1924 quando, con tutta la famiglia, si trasferì a Firenze dove ebbe l’opportunità di frequentare, da allieva, lo studio del pittore macchiaiolo Ludovico Tommasi. Appartengono appunto a questo periodo due vedute di stile macchiaiolo come Chiesa della Tosse e Casa sull’Arno. Sempre a Firenze conobbe un critico d’arte, Aniceto Del Massa, che l’aiutò a partecipare alla IV Mostra Regionale Toscana del 1930 e col quale intrecciò un rapporto amoroso contrastato, definito un “delirio passionale”. Fu proprio la delusione amorosa, unita ai contrasti con la famiglia d’origine che ostacolò la sua volontà di emanciparsi da un destino già scritto per una donna dell’epoca, e alla morte prematura dell’adorato fratello Alberto a spezzare l’equilibrio psicologico di una talentuosa giovane donna, tanto intensa quanto fragile, che si era appena aperta alla vita.

Nel 1935 il suo crollo psichico portò la sua famiglia a decidere di internarla in una clinica di Modena, un vero e proprio manicomio. Nori vi entrò a 33 anni e vi rimase per altri trentatré, fino alla sua morte avvenuta il 2 giugno 1968. Tuttavia proprio in manicomio accadde qualcosa di impensabile, perché qui Nori si dedicò completamente all’arte poetica e pittorica. L’agiatezza economica le permise, infatti, di avere una stanza tutta per sé e di ricevere continui rifornimenti di colori e di riviste culturali. Così, fra le mura della casa di cura, Nori scrisse la sua autobiografia in versi: «Non è più dentro di me l’anima, ma in settecento pagine è passata. Ormai nel libro essa è tutta inserrata. Io non sono più io. È il libro Nori. Io non sono più Nori. Il colore dell’esser mio dalle pagine è passato».

Inoltre realizzò oltre mille opere pittoriche con uno stile espressionista, a tratti quasi naif , nelle quali denunciava l’ipocrisia del periodo storico da lei vissuto. E realizzò questi lavori in ogni modo e su ogni superficie disponibile: tela, carta, il coperchio di una scatola, la copertina di un taccuino. Nori così lavorò ogni giorno per raccontare la sua sofferenza, in una sorta di diario esistenziale scritto a fil di pennello, e costruì un immaginario popolato soprattutto di figure femminili, accompagnate da clown, zingari, infermieri, giocatori di carte, musicisti, gatti e bambole. Un universo fiabesco e onirico dove la protagonista è sempre Nori, ritratta con abiti e pose diverse. In questi autoritratti l’artista si vede sempre come un personaggio diverso: ora una donna fatale, ora una maschera della commedia dell’arte, ora come una figura tragica e malinconica.

Basta osservare opere come Nori al pianoforte (1943) oppure Nori in vestaglia a fiori (1950), per comprendere quanto il suo fosse un dialogo silenzioso e costante fra sé stessa e la tela. Lo sguardo fisso, il volto teso e angosciato, gli elementi ricorrenti come le maschere o i ventagli, fino alla staticità della scena, tutto rimanda a un tempo e a uno spazio bloccato, dove l’unica possibilità di salvezza pare essere affidata all’universo creativo e mentale dell’artista stessa. Sembra infatti quasi di vederla mentre, in un mattino uguale a tutti gli altri, si mette all’opera e fra sé pensa: «Non mi occorre più vivere nel mondo o tenere la finestra aperta per ascoltare la vita che scorre là fuori, il flusso dell’esistenza mi arriva fra queste spesse mura, sotto forma di pensieri che le mie mani traspongono sulla tela. E allora tutta la vita che mi si agita dentro – negata, segregata dall’ipocrisia di questo mio tempo crudele – diventa un tripudio di colori, di giochi, di festa. Mi sembra quasi di sentirne persino il suono, il suono della vita che si esprime in libertà, senza lacci né convenzioni né costrizioni. Ed è questa mia arte a farmi sentire libera, oltre tutte le barriere materiali e oltre tutti i pregiudizi morali che ingabbiano il genere umano. E voi, là fuori, siete davvero sicuri di essere liberi?».

Nel 1967 dipinge su una lastra per radiografie il suo ultimo quadro, L’anima di Nori che sale in cielo, nel quale sembra presagire, e immaginare, la sua morte, che avverrà l’anno seguente. La tormentata vita di Nori e la sua immensa produzione artistica appaiono come la prova plastica di come l’arte possa diventare uno strumento per combattere il dolore. Nori è stata un’artista sensibile, raffinata, visionaria. Una donna mai doma, e col suo incessante lavoro ha dimostrato che la sua ipersensibilità, la sua ricerca cromatica e il suo linguaggio stilistico non sono affatto il frutto della follia. I suoi scritti e i suoi quadri sono senza tempo e sono la chiave che le ha permesso di trovare in sé la liberazione dalle costrizioni impostele dalla società. Il 7 ottobre 2012 è stato inaugurato a Ripe, il paesino della sua infanzia spensierata, il Museo Nori de’ Nobili che conserva l’archivio storico e circa 70 dipinti dell’artista che ripercorrono la sua tormentata e florida esistenza.