intervista a cura di Romina Ciulli e Carole Dazzi
Le opere della scrittrice e fotografa Alessandra Baldoni si caratterizzano per un senso di unicità e di inquieto disincanto, reso attraverso un approccio intimo e personale. Le sue immagini ci parlano di tematiche legate alla memoria, alla consapevolezza, ai sentimenti, e sono dei veri e propri racconti dell’anima, fatti di legami che si intrecciano ed emozioni che si svelano. Partendo da un contesto concettuale fatto di parole, l’artista infatti fa emergere un flusso potente e struggente di foto-storie, nelle quali ognuno può riconoscersi, ognuno può sentire il proprio vissuto e la propria essenza. E’ l’arte del raccontare, del creare universi dove tutto permane e non smette di riecheggiare.
Tutti aspetti che ritroviamo nei suoi lavori, da C’era un volto a Le cose che vedi, da Ti rubo gli occhi a I need protection, a progetti come Salva con nome, Pigre divinità e pigra sorte, Atlas e Corpo Celeste. Parliamone con l’artista.
Nelle tue fotografie utilizzi un processo creativo che, partendo dalla parola, mette in scena storie fatte di persone e di momenti esistenziali ben distinti, che sembrano provenire da un bisogno consapevole di raccontare, se non di ricordare. Puoi parlarci di come nasce il tuo lavoro?
Le mie emozioni sono sempre appese al rigo della letteratura. La parola è la scintilla, brilla luccicando nel buio dei giorni, è il fuoco in lontananza che accende l’immaginazione delineando i contorni delle cose. Io stessa scrivo da sempre, la parola è medicamento e incantesimo, il più potente che io conosca. Fa accadere cose, simile alla magia. Mi piace dire che scrivo piccole sceneggiature per uno scatto. Ma che le parole siano mie o di altri, vere o inventate poco conta purché portino meraviglia, siano fendenti capaci di aprire crepe nella superficie opaca del mondo. Esistere è raccontare ed essere raccontati, è così da sempre. L’epica, i miti, le favole, poesie, romanzi … perfino il nostro incessante contemporaneo mandare messaggi è un dire “io ci sono, io esisto”. Una storia è scegliere quali tra i fatti che costantemente succedono ha significato, è prelevare dallo scorrere indifferente del tempo qualcosa da ricamare affinché diventi portatrice di significato.
Tutta la mia arte insegue quel ricamo, la trama (non a caso). E vorrei che le mie immagini si sollevassero dalle parole, come apparizioni improvvise. Epifanie intarsiate d’oro. Nel mio lavoro cerco l’interezza delle parole, cerco tutto ciò che trascuriamo, lasciamo indietro piegato e piagato dal rumore che ci circonda. Cerco le parole che ci riportino alla nostra fragilità, alla mortalità che ci ricorda l’esattezza del presente, che ci mostra la rovina, l’esile esistenza nascosta dietro smalti e levigature. Parole dove spesso risuona l’abbandono, la ferita, il turbamento. Ecco, io amo gli spazi linguistici incerti, gli scostamenti, i rivoli di senso sommersi. “Se ho scritto è per pensiero/ perché ero in pensiero per la vita”, Antonella Anedda.
Nelle tue opere si percepisce una sorta di messa in scena cinematografica, o meglio di sceneggiatura cinematografica, nella quale lo scatto rappresenta la fase finale di un processo preparatorio intimo e approfondito. Puoi spiegarci questo aspetto?
Gran parte del mio lavoro ha a che fare con una solitudine profonda che somiglia a un’immersione. Passo le mie giornate a studiare, cercare, attraversare la poesia, la letteratura, il cinema, la pittura del cinquecento. come un palombaro calato negli abissi cammino esitando, a volte con il respiro rotto dalla fatica, in cerca di tesori. Le idee, l’innesco, può arrivare da qualsiasi parte. Tutto ha origine dal desiderio. Una spinta, una vertigine. Una mappa da decifrare. Qualcosa chiama, non saprei dire altrimenti. E lo studio, la disciplina sono essenziali affinché poi prenda forma e sostanza l’idea del lavoro. Tutto è pensato nei particolari, tutto è deciso, segnato, annotato. Quando arrivo allo scatto, l’esecuzione è sempre veloce: ho in testa l’immagine da mesi, so benissimo cosa voglio. I miei set sono diorami della mia immaginazione.
Qui però, in questa parte del processo creativo dopo che il lavoro ha preso consistenza ed è strutturato, non sono più sola ma in un certo senso ho accanto a me una squadra sempre diversa che mi aiuta e sostiene. Non sarei chi sono se le persone non avessero posato per me nei modi più assurdi, se non mi avessero aiutato a trovare oggetti, abiti, a scattare sul ghiaccio o tra le fiamme, ad accedere a luoghi altrimenti impossibili. Devo dire che il momento del set è sempre emozionante: a volte persino quando siamo in tanti, c’è un silenzio quasi religioso. A volte invece c’è musica e confusione. Ed è incredibile come le persone entrino nell’arte, come d’un tratto niente importi come quello che stiamo facendo. Non conta il caldo, il freddo, la difficoltà. Siamo tutti concentrati a mettere in scena qualcosa che prima esisteva solo nella mia testa, un mio fantasma personale che d’improvviso appare a tutti.
Ne “Le mie parole sono balocchi” e “Stamattina nello specchio”, tratti dal progetto “C’era un volto”, il mondo reale si arricchisce di elementi simbolici ed enigmatici, come le maschere di animali, oppure oggetti che evocano il fantastico, creando in questo modo momenti stranianti di riflessione. Puoi parlarcene?
Sono sempre alla ricerca di crepe, di piccole distorsioni della realtà. Cerco le increspature, le spezzature del mondo. Mi piace pensare che le ombre della notte a volte si allunghino in angoli insospettati del reale. Forse perché qualcosa ci tocchi, dobbiamo sentirne il perturbante, ci deve essere un senso sottile di pericolo. Mi piacciono le metamorfosi, le trasformazioni come nelle favole, come nel sacro. E’necessario attraversare regni esistenziali e semantici per evolversi. La favola per eccellenza è il luogo scoperto, il luogo dove ogni cosa è possibile, nel bene e nel male, e gli accadimenti sono sempre prove da superare con atti creativi. E’ il luogo dell’iniziazione. Amo quello che mi mette in difficoltà, che non è immediato, che mi costringe a guardare di lato, con la coda dell’occhio, come a cercare presenze che altrimenti resterebbero invisibili, appoggiate ai muri.
Nelle tue fotografie, spesso attraverso l’uso del bianco e nero, emerge con forza una sensazione di malinconica sospensione, di indefinito e accattivante mistero. Come per esempio nel tuo lavoro “Le cose che vedi”, dove le figure femminili, per lo più vestite di rosso, raccontano un immaginario fiabesco che diventa reale, perché proveniente dal profondo di noi stessi. In che modo il simbolismo influenza il tuo lavoro?
Sono in cerca di simboli che attraversino gli occhi e l’animo di chi guarda. Simboli che parlino anche se non interrogati. Che sussurrino verità antichissime. Un po’come nei sogni ricorrenti, ci sono enigmi che si affacciano in noi e che ci portano in un tempo altro, lontanissimo, dove le regole di tutti i giorni non funzionano. Ho molto lavorato sulla fiaba, sulle potenza che cela e come Cristina Campo, ritengo si avvicini molto alla poesia. Enigmi, rebus. Trappole. Lupi. Bambine che si perdono nei boschi di rosso vestite e che risuonano in noi. Il rosso è un colore che mi ha seguito per anni, un colore dentro cui cadevo ogni volta. Il colore del sangue, del rischio, del pericolo. Il colore più sfacciatamente vivo. A volte è necessario attraversare certi luoghi inospitali e selvaggi. È necessario smarrirsi. I simboli sono dei crocevia, sono indicazioni a metà, mappe in parte cancellate. Li riconosciamo ma non del tutto. Qualcosa è familiare, conosciuto, ma c’è qualcosa anche di estremamente estraneo, non addomesticato, non pronunciato che ci spinge alla ricerca, ci spinge in un territorio estremo dove ogni passo è rischio, mistero.“e oggi ascolto / il suono alle / tue vertebre, / lo spazio interno / alle / parole, / lucciole di / questo mio / buio.” Elisa Biagini.
Un altro aspetto fondamentale che emerge dalle tue opere è quello della parola. I racconti, le poesie, o i diari, come nell’istallazione “Ti rubo gli occhi”, o le frasi incastonate negli scrigni di “I need protection”, permettono allo spettatore di “toccare” concretamente emozioni, sentimenti, pensieri, e di far loro vivere un’esperienza che scoprono consapevolmente propria. Puoi parlarci di questi progetti e di quanto l’approccio scritto sia stato importante per la loro realizzazione?
Concordo con quanto da voi detto. Entrambi i progetti sono stati pensati per essere toccati e letti, per essere avvicinati fisicamente perché le parole sono materia. Ti ricordi le pagine di a, di b, di c e così via quando in prima elementare imparavamo a scrivere? Pagine e pagine di lettere, prima incerte poi via via più sicure, dal tratto pesante… pagine come lenzuola ricamate. Un corredo, per andare in spose alla vita. “Ti rubo gli occhi” è un progetto che ho portato avanti per anni, spedendo un diario da riempire, in un mese, prima a persone che conoscevo e poi a chiunque mi contattasse per averne uno. Sulla prima pagina mettevo una foto, sempre diversa. Il punto di partenza, il nord sulla cartina. Ma poi ognuno era libero di muoversi dal mio punto di partenza e di costruire un viaggio nella direzione di quella mia rotta accennata o, cosa ancora più interessante, di perdersi deliberatamente. Era un archivio di esistenze. Ne ho raccolti un centinaio, tutti magnifici (scritti, disegnati, cuciti, strappati, ricamati, pieni di foto o di cose), e quando li esponevo appesi a dei fili rossi, i visitatori della mostra passavano giornate intere a leggere perché è certamente irresistibile potersi affacciarsi dal balcone del corpo alle vite degli altri.
Invece “I Need Protection” è nato dopo che ero stata invitata dalla Biennale del vetro di Sansepolcro a produrre un’opera a tema. Dopo aver studiato alcune lavorazioni, e non volendo produrre un lavoro puramente decorativo, ho iniziato a riflettere sul vetro e i suoi significati. Mi è subito venuta in mente Biancaneve, le favole mi vengono sempre in aiuto, che dorme in una bara di vetro dopo essere caduta addormentata per via della mela avvelenata. E poi ho pensato alle reliquie dei santi nelle teche di vetro, agli oggetti nei musei. Al vetro che protegge ma nello stesso tempo è fragile. Al vetro che se si rompe diventa pericoloso… Così è nata l’idea degli scrigni in ferro e vetro. Ho chiesto a 21 persone di scrivermi il loro più grande desiderio o la più grande paura affinché io potessi custodirli, averne cura. Gli scrigni riportano frontalmente quei versi, quelle parole, incise in un vetro che vela e nasconde l’interno. Poi aprendoli, una foto/metafora sotto un vetro con un effetto acquatico e nebuloso come l’inconscio mette in scena quel desiderio o quella paura. Un censimento sentimentale, una raccolta tassonomica delle emozioni. In entrambi i progetti la parola è il cardine che regge ogni cosa.
Per “Salva con nome” invece ti sei ispirata alla letteratura, realizzando un lavoro dedicato alle scrittrici femminili. Mentre per “Pigre divinità e pigra sorte” dialoghi con i capolavori della Galleria Nazionale d’Umbria, trasformando le opere in dittici narrativi suggestivi e personali. Puoi raccontarci come sono nati questi progetti?
“Salva con nome” è un lavoro-tributo ad alcune delle scrittrici e poetesse (come Amelia Rosselli, Ingeborg Bachmann, Antonia Pozzi, Emily Bronte, Virginia Woolf, Louise Gluck) che hanno riempito i miei occhi e il mio cuore di immagini e visioni incandescenti. Quelle donne che hanno lottato per avere un posto, una stanza tutta per sé, e che hanno con grande difficoltà cercato di farci sentire la loro voce in un universo dal suono esclusivamente maschile. Salve con il loro nome, per il loro nome e la loro identità. Salve nonostante il tentativo violento di farle tacere, nonostante l’aggressione così forte del mondo che spesso le ha fatte sentire perdute, abbandonate, le ha portate al suicidio. Sentivo il bisogno di ringraziarle. Sentivo il bisogno di raccontare alcuni dei loro versi attraverso le immagini, volevo fosse chiara la potenza, il talento, la furiosa grazia di cui erano capaci.
“Pigre divinità e pigra sorte”, titolo preso da una raccolta di poesie di Patrizia Cavalli, è un lavoro nato da una circostanza straordinaria. L’allora direttore della Galleria Nazionale Umbra, Marco Pierini, mi ha permesso di entrare in galleria durante i lavori per il suo riallestimento. Ho avuto accesso in un momento delicatissimo, nel mezzo di un cantiere dove le cose erano ancora in una fase incerta: molte opere erano state spostate e staccate dalle pareti che le avevano custodite per decenni ma ancora tutto doveva trovare nuovo posto e nuova forma. Assistevo a una metamorfosi, vedevo l’eternità porgermi il fianco. Ho avuto l’idea di accostare particolari delle opere (che sembravano fissarmi interrogandomi sulle loro sorti) a particolari dei lavori. Gli ori degli affreschi e il pluriball, ali di angeli e chiodi e stuccature, fili elettrici e piedi di santi… Un momento indimenticabile, vedere opere della grande tradizione classica dentro un cantiere e mettere in dialogo l’eterno e l’effimero. Non credo potrò mai dimenticare quel pomeriggio d’agosto in cui da sola ho varcato le stanze della galleria un’ultima volta prima del loro incredibile riallestimento. Tutto era fragile e incerto, ogni cosa era sospesa come se dovesse essere pronunciata nuovamente per esistere.
Altro progetto importante è la mostra intitolata “Corpo Celeste”, che nasce da uno workshop durante il quale ti sei confrontata con un gruppo di adolescenti e con le loro aspettative, i loro desideri, e le loro paure. Puoi dirci che cos’è emerso da questo lavoro e perché hai scelto questo titolo?
“Corpo Celeste” è il titolo di una piccola raccolta di saggi di Anna Maria Ortese. Ho letto, su Doppiozero, un articolo di Chandra Livia Candiani che parlava di questo suo libro e nelle parole con cui lo raccontava ho trovato l’idea per il mio progetto. “Non raccontarsi la storia come vogliono i tiranni del pensiero, non infilarsi una maschera e lasciarla diventare nostra pelle. Imparare a stare nascosti. In disparte. Tornare a giocare. Fare della innocua follia una legittima risorsa. Stare fermi e zitti a guardare e ascoltare. Smettere di far paura a tutti gli altri esseri e agli umani che non stanno in riga. Smettere di parlare solo con chi ci fa eco. Lasciarci vedere brutti come siamo, crudeli come siamo, per fiducia nella trasformazione e nella bontà fondamentale, quella che non lo fa apposta. Non cercare scuse, ma smettere e rammendare”. Dopo due anni di pandemia, di corpi isolati staccati e puniti e di facce a metà per necessità, io avevo bisogno di ritrovare l’interezza del ritratto. Mi mancavo lo splendore dei volti, il prodigio che rappresentano. Sentivo che le storie si erano interrotte, spezzate come un libro senza una metà. CasermArcheologica a Sansepolcro è un luogo di rigenerazione urbana e di incantesimi.
Da dieci anni faccio workshop di disobbedienza creativa con i ragazzi del liceo nei suoi spazi. Sono stata invitata a fare una residenza dove avrei ritratto tutti i ragazzi, adolescenti, che avrebbero risposto alla nostra chiamata. Se ne sono presentati quaranta. Sono molto interessata a questa fascia d’età, un momento incandescente, estremo, pieno di emozioni non misurate ma ancora intere e marziali. Ho costruito dei piccoli set con cose portate da me e da loro, li ho ascoltati e di nuovo ho chiesto paure e desideri a questi ragazzi che per due anni erano stati prigionieri di una pandemia. Ho sentito la paura, il senso di morte, la fragilità prepotente delle loro storie ma anche il desiderio, la voglia di tornare a parlare di futuro dopo un presente doloroso fatto di bollettini di morte quotidiani. Ne è nato un Atlante luminoso e fatto di anime indocili in cui ho messo i loro volti in dialogo con il territorio e alcuni luoghi significativi: particolari di quadri del Museo Civico, dell’Archivio Museo della Resistenza, dell’Archivio Diocesano, di Aboca Museum, e di CasermArcheologica stessa. “Corpo Celeste” è diventato mostra e un piccolo libro azzurro come la grazia.
E’ invece dall’Atlante di immagini intitolato Mnemosybe dello storico dell’arte Aby Warburg che prende spunto il tuo “Atlas”: immagini fatte di assonanze, legami, rimandi tra passato e presente, esteriorità e interiorità. In questo modo si crea un dialogo costante fatto di ricordi, che si apre a nuovi universi e nuovi interrogativi. Quanto la memoria è importante per il tuo lavoro?
L’incontro con l’Atlas Mnemosyne di Aby Warburg è stato per me decisivo. L’idea della permanenza delle immagini nella nostra cultura, che vengono ogni volta riattivate, del ritornare di gestualità e iconografie specifiche ha cambiato il mio modo di vedere. Mi rendo conto che per me costruire sequenze in dittici e trittici secondo ricorrenze e rime, assonanze e discordanze fatte di linee simili e cromie, rime visive nei significati, è diventato un metodo, un modo per cercare una matematica della bellezza, un frattale segreto che fa risuonare il mondo. Non riesco più a vedere le immagini singolarmente, nell’avvicinarle si incendiamo, assumono la forma di un mistero.
Sono turbamenti, accostamenti che travalicano lo spazio e il tempo. Alcune immagini sono prelievi dall’arte antica, altre riguardano il paesaggio o gli animali e i minerali. E ci sono poi i ritratti che sono la parte più specificatamente costruita del lavoro. Tutto si cerca, si rincorre, lascia un enigma accanto a sé. La memoria è raccontare le sepolture più antiche e capire perché certi nomi ancora risuonano, è tornare indietro ma riconfigurando le cose, mescolandole al presente. La memoria è creativa, instabile, meravigliosamente bugiarda. E’ qualcosa che sempre si modifica. Le immagini funzionano se sono cortocircuiti, se offrono appigli e aprono porte su scenari dove il passato si muove e diventa destino nel presente.
Ci sono degli artisti a cui ti ispiri o che continuano a influenzarti?
In realtà sono moltissimi. Sarebbe difficile fare un elenco anche perché cambiano e assumono importanza diversa secondo il momento. Diciamo che ci sono scrittrici e poetesse che sono pezzi del mio cuore, come per esempio Emily Dickinson, Antonella Anedda o Jolanda Insana. Per rimanere in ambito prettamente artistico, ti direi che una mia eroina personale è Sophie Calle. Adoro tutto il suo lavoro e la componente di gioco che spesso accompagna i suoi progetti. E poi, Christian Boltanski. Ma anche Diane Arbus, Duane Michals e, un’artista che seguo e ammiro da anni, Alessandra Spranzi. Ancora una volta sono le storie a chiamarmi, sono gli artisti che danno voce alle cose che accadono.