a cura di Romina Ciulli e Carole Dazzi
Che cos’è la fotografia se non la capacità di raccontare la realtà, interpretando ciò che appare davanti ai nostri occhi attraverso innumerevoli dimensioni esperienziali, trasformando uno sguardo soggettivo in una visione unica, svelando un aspetto segreto che continuerà a rimanere emotivamente tale? Questo è ciò che si prova avvicinandosi alle opere di Nicola Bertellotti, artista toscano, che ha trasposto questa metodologia concettuale propria del mezzo fotografico ai luoghi esplorati durante i suoi viaggi.
Luoghi abbandonati, dimenticati, scenari in rovina, avvolti in atmosfere malinconiche e romantiche. Qui il tempo si è fermato, ma continua a ecovare scenari trascorsi, se non addirittura futuri. E’ proprio da questo spunto che parte la ricerca artistica di Bertellotti: con i suoi scatti testimonia i riverberi del passato e la caducità di un’esistenza che, riaffermando in maniera prorompente la sua innata bellezza, non smette di parlarci del nostro presente, della nostra identità, della nostra società. Un lavoro, dunque, caratterizzato da forti implicazioni emotive, da visioni immaginifiche, per certi versi oniriche e perturbanti, che valica le barriere del tempo per approdare a quelle della memoria storica e collettiva. Tra le sue opere, ricordiamo le serie The Great Beauty (2018), Picturesque (2021), Restitution (2021), Hic Sunt Dracones (2016) e i libri fotografici Fenomenoliga della Fine (2013) e In Absentia. The Modern Ruins of Europe (2022). Ne parliamo con l’artista.
I tuoi scatti rappresentano una realtà decadente e malinconica. Tuttavia la visione di questi luoghi abbandonati genera nello spettatore un inaspettato richiamo emotivo, una sorta di fascino per la bellezza destabilizzante emanata da quegli scenari. Quali sono i motivi alla base della tua ricerca artistica?
Sono sempre stato attratto dall’epifania di questi luoghi, dalla loro epopea e dalla loro scomparsa definitiva. Gli oggetti desueti e le stanze fatiscenti presenti nel mio lavoro rivestono la stessa funzione che ricopre in Proust la madeleine, quella di evocare il ricordo di un’età felice. Non sono interessato al mero abbandono bensì al segno del tempo, alle varie stratificazioni che poi definiscono la decadenza di un ambiente.
Nel tuo percorso artistico sei stato influenzato da scrittori e artisti importanti. Fra questi John Ruskin, il quale nel saggio The Seven Lamps of Architecture (1849) teorizzò una relazione esistenziale tra l’uomo e l’architettura da cui è circondato, sottolineando quanto questo legame sia fondamentale per costruire la nostra dimensione storica passata, presente, ma anche futura. Questo elemento si ritrova, per esempio, nella serie intitolata The Great Beauty (2018). Puoi parlarci di questo progetto e di come questi luoghi testimonino questo concetto?
Se l’uomo, per proteggere le sue opere dall’usura del tempo, non aveva altro strumento di difesa che ricorrere al restauro ” falsificatore” allora suggeriva Ruskin, piuttosto che popolare il mondo di edifici alterati e non più autentici sarebbe stato auspicabile abbandonarli al degrado e al proprio destino. Riprendendo alcune delle sue tesi, anch’io immagino come edificio perfetto quello a cui il tempo ha apportato il tocco finale. I luoghi che fanno parte della serie The Great Beauty sono veri e propri paradisi perduti che svelano la dolorosa consapevolezza della loro gloria passata ma è l’addizione: bellezza + tempo che li rende così speciali.
Un altro aspetto che caratterizza il tuo lavoro è lo spirito romantico. I luoghi che mostri in progetti come Picturesque (2021) o in Restitution (2021) emanano una poetica nostalgica, che riporta non solo alla caducità della vita, ma all’origine stessa della natura e dell’esistenza. In che modo dunque queste rovine possono diventare la metafora di un progressivo ritorno all’armonia primordiale?
Celebro la rovina moderna in quanto elemento architettonico nel quale la decadenza dell’opera umana, a seguito del suo abbandono e della progressiva riconquista del suo spazio da parte della natura, pur avendo in sé la tragicità propria della progressiva distruzione, è, tuttavia, il luogo di una perfetta armonia tra la tensione spirituale dell’uomo e le forze materiali della natura. Il fascino della rovina deriva, infatti, proprio dal suo essere progressivamente riconsegnata alla natura, la quale ha modo di stendere il proprio velo sull’opera dell’uomo, dando vita ad una nuova forma di bellezza che trae le proprie origini dal senso della decadenza che tutto pervade.
Un altro personaggio che ha in qualche modo influenzato la tua ricerca è Nicolas Bouvier, che nel libro “La polvere del mondo” (L’usage du monde, 1963) racconta il suo viaggio alla scoperta di luoghi incantati, ma soprattutto di se stesso. Quanto le tue fotografie ci parlano della nostra società, della nostra identità, di noi stessi?
Dovremmo fare i conti con le macerie così come dovremmo fare i conti con le nostre ferite, i propri fallimenti. Sovrapporre continuamente la topografia del paesaggio alla nostra topografia interiore. Non rimuovere, ma ascoltare l’abbandono, prendersene cura, accudirlo in quanto facente parte di quello che siamo, della nostra storia e del nostro futuro. Per fare tutto ciò dobbiamo riempirci di malinconia e di stupore. Non dovremmo mai aggiungere dimenticanza all’abbandono, finché ne pronunceremo ancora il nome, allora le rovine rimarranno sempre in piedi. Ma se per qualunque motivo dimenticheremo una frazione, una località, se nella fretta tralasceremo il nome di una città fantasma, per leggerezza e superficialità, allora crollerà tutto, ancora.
In Absentia. The Modern Ruins of Europe (2022) è un’antologia fotografica dove il personaggio principale sembra essere l’uomo. O meglio l’uomo che non c’è più, che manca, che è assente. Quello stesso uomo che ha costruito quei luoghi, che li ha vissuti, usati, amati, e di cui adesso rimane solo una vaga traccia nella memoria collettiva. Quanto il ricordo rappresenta una parte importante della tuo lavoro?
Alla fine del film “Un’altra donna” di Woody Allen la protagonista si chiede se il ricordo è qualcosa che abbiamo o che abbiamo perso per sempre. Ecco, alla base del mio ultimo libro, c’è proprio la tensione tra queste due possibili risposte. Sono vere e false entrambe. Come la presenza umana in questi luoghi, così vuoti ma allo stesso tempo ancora pieni di vita (passata).
Invece nella mostra Hic Sunt Dracones (2016) presenti una serie di immagini di luoghi abbandonati dislocati in ogni parte del mondo che riprendono vita grazie alla natura. In ogni scatto, infatti, sembra di assistere a una sorta di riconquista affettiva: non più rovine dimenticate, ma ricordi di un’esperienza felice. Puoi parlarci di questo progetto?
“Hic sunt dracones” è un’espressione che veniva associata alle carte geografiche antiche per indicare le zone ancora inesplorate. Ho intitolato così la mia mostra proprio per alzare il velo su tanti posti del nostro paese che ormai sono tornati a essere fuori dalle mappe. Il mio intento è quello di mostrare tutta questa geografia invisibile che ci circonda. Ogni giorno tutti noi passiamo con indifferenza davanti a luoghi che nascondono ancora tanta bellezza e veri e propri tesori.
Un’esperienza simile avviene nel libro Fenomenologia della fine (2013): industrie, ville e chiese in rovina che sembrano acquistare un nuovo ruolo rispetto a quello originario, ossia quello della memoria. Quanto il medium fotografico contribuisce a restituirci questo valore collettivo?
Relativamente perché è il soggetto, in questo caso i luoghi in rovina, che ha fatto di me un fotografo. Se avessi avuto altri talenti avrei usato un altro medium. Se fossi un bravo pittore ne dipingerei le architetture, se sapessi scrivere diventerebbero lo sfondo dei miei romanzi.
Nel 2022 hai partecipato al progetto Il Bosco in una Serra: una mostra itinerante, dislocata in Valdelsa, dedicata alla ricerca di un rapporto uomo/natura più armonioso e duraturo. In questo caso le tue fotografie si rapportavano con le opere dello scultore Hermann Josef Runggaldier attraverso un intenso dialogo emotivo. Puoi parlarci di questa esperienza?
Le opere in mostra potrebbero idealmente tutte far parte del “Manifesto del terzo paesaggio” di Gilles Clément. Come possiamo definire il terzo paesaggio? Sono gli spazi vuoti, marginali, privi di esseri umani a occuparli, quelli che possono trasformarsi in rifugi delle diversità, luoghi indecisi, privi di funzioni, che non esprimono sottomissioni al potere e sono meravigliosamente inutili.
Ci sono dei fotografi che hanno ispirato il tuo percorso artistico?
Voglio citare due nomi che per me sono dei veri e propri pilastri della fotografia contemporanea: Robert Polidori, soprattutto il suo splendido lavoro su Cuba, ed Edward Burtynsky, con le sue magnifiche visioni dall’Antropocene.
Puoi parlarci dei tuoi progetti futuri?
A inizio febbraio sarò in mostra per la prima volta in Spagna, a Barcellona. Si tratta di una collettiva curata da Eliana Urbano Raimondi ed il titolo è “Inventarium”.