Nel mondo eterogeneo dell’arte quale altra figura combina insieme emozione, scoperta, intraprendenza, trepidazione, se non quella del curatore? Un mestiere eclettico, versatile, spesso complicato, nel quale oltre alla conoscenza, è la passione a costituire un ruolo essenziale, a spingerti a metterti in gioco, e a farti vivere quante più realtà possibili. E in aggiunta a interrogarsi costantemente, a vedere le sfumature attraverso angolazioni diverse, e infine a creare, gestire, celebrare. Un’attività “artistica” che seguiamo e inseguiamo, e che è portata avanti anche dalla torinese Margaret Sgarra, la quale recentemente ha curato a Perugia la mostra intitolata #Penelope.
Si tratta di una riflessione e reinterpretazione della pratica tessile, concepita come medium d’arte e focalizzata sul tema della condizione femminile nella contemporaneità. Intervistarla ci permette di comprendere in maniera più approfondita le dinamiche insite in questo mestiere e di confrontarci sugli aspetti centrali di questa esposizione.
Il lavoro di curatore d’arte rappresenta un mestiere indubbiamente ricco di possibilità, fatto di ricerca, studio, universi interiori, approcci emotivi e relazionali, rinunce e successi. Puoi raccontarci la tua esperienza e cosa ti ha convinta a scegliere questa attività?
Durante il mio percorso di studi, avvenuto tra Torino e Bologna, ho focalizzato l’attenzione sulle tendenze artistiche della seconda metà del Novecento. Questo mi ha spinta ad andare oltre e ad avvicinarmi anche alla scena artistica odierna. I corsi universitari sono indispensabili per avere una formazione teorica, ma è necessario scontrarsi con le difficoltà effettive che emergono nel dare forma a un progetto espositivo: il confronto con gli artisti, il rapportarsi con uno spazio avente caratteristiche precise, l’allestimento, ecc. Sono tutte cose che bisogna imparare a gestire, e l’unico modo per farlo è quello di mettersi in gioco. Nel 2020 ho frequentato N.I.C.E., un corso pratico di curatela organizzato da Paratissima Art Fair, e successivamente ho iniziato a realizzare alcuni miei progetti curatoriali. Amo l’arte contemporanea nelle sue svariate forme e mi affascina la lettura delle opere d’arte, analizzarne i significati, apprendere il modo in cui vengono realizzate e le storie che vogliono raccontare. Penso che l’arte contemporanea sia lo specchio della nostra società e voglio dare forma a progetti in cui si analizza quest’ultima. La costruzione di una mostra è anche un modo che mi consente di “leggere” l’attualità, comprendere sguardi differenti dal mio, e questo aspetto mi arricchisce molto. L’ideazione parte sempre da una domanda che mi pongo a livello personale e la costruzione del percorso espositivo mi permette di ricevere molteplici risposte.
Dal punto di vista curatoriale, ma anche culturale ed educativo, come consideri il panorama artistico italiano? E ti sei invece mai rapportata con il contesto europeo o internazionale.
Penso che fare l’artista oggi non sia semplice perché bisogna confrontarsi con tutto quello che è già stato fatto precedentemente. In alcuni casi si pensa che basti frequentare una scuola d’arte per essere un artista, come se la padronanza delle tecniche fosse sufficiente per considerarsi tale. Invece occorre avere una capacità critica di lettura della nostra contemporaneità. E quella non te la insegnano nei corsi. Spesso, frequentando le mostre e gli studi degli artisti, mi è capitato di trovarmi di fronte a opere d’arte con un potenziale estetico o tecnico che, però, non riuscivano ad andare oltre quell’aspetto. Chi vuole fare l’artista deve avere qualcosa da dire, non basta creare. Poi, a livello visivo, mi colpiscono le ricerche artistiche che presentano linguaggi ibridi, talvolta antitetici, e soprattutto che non hanno paura di disorientare o destabilizzare chi le osserva. L’arte deve essere coraggiosa. Per quanto riguarda il contesto europeo e internazionale, mi interessa molto. Sto lavorando anche per potermi confrontare con esso, è sicuramente nei miei progetti.
Da poco hai curato la mostra #penelope all’SDC Studio di Perugia. Puoi spiegarci com’è nata questa idea, come hai scelto le artiste esposte e quali sono le riflessioni/emozioni che volevi far emergere?
La mostra #penelope tesse metaforicamente un filo tra tradizione e contemporaneità. La figura mitologica di Penelope viene accostata all’hashtag, un simbolo della dimensione virtuale contemporanea. Una volta le pratiche tessili venivano considerate come una tradizione popolare femminile attraverso cui creare oggetti di uso comune. Oggi la Fiber Art, nelle sue svariate forme visive, è un tipo di arte capace di comunicare, emozionare e indurre riflessioni. Per questo progetto sono state scelte tre artiste donne che rappresentano tre moderne “Penelope”. Esse si interrogano su alcuni temi della nostra attualità: Alice Biondin sulla condizione femminile, Grazia Inserillo sulla definizione identitaria e Francesca Rossello sulla salvaguardia della sfera ambientale. Alice Biondin pone l’attenzione sulle mestruazioni (un tema che rappresenta ancora un tabù) e sulle trasformazioni corporee dovute alla gravidanza. Grazia Inserillo riflette sul ruolo esercitato dal luogo di nascita nella costruzione
del proprio sé. E Francesca Rossello instaura un parallelismo tra la dimensione interiore umana e quella interna della natura. L’idea generale è quella di stimolare nel fruitore delle riflessioni sulla complessità del nostro presente, attraverso un tipo di arte che un tempo veniva considerata solo come una pratica decorativa. Vorrei che l’arte contemporanea venisse intesa come uno strumento di lettura di quello che succede e non come un “oggetto artistico” fine a sé stesso. Trovo sempre molto soddisfacente interfacciarmi con il pubblico, sentire che dopo aver messo in evidenza gli ipotetici significati dell’opera in questione, effettivamente il fruitore riesce a “visionarli e “percepirli”, annullando così quella barriera che si crea tra opera d’arte e individuo.
Ci sono dei personaggi legati al mondo dell’arte o degli artisti a cui ti ispiri maggiormente?
A livello curatoriale ammiro molto la figura di Germano Celant e la sua capacità di aver dato forma a un movimento artistico come quello dell’Arte Povera, a cui sono legata e su cui ho indirizzato parte del mio percorso di studi. Poi ci sono diverse figure artistiche storicizzate che seguo con attenzione, tra queste: Sophie Calle, Michelangelo Pistoletto, Mario Merz, Gerhald Richter, Anselm Kiefer, Daniel Buren, Jeanne-Claude e Christo, Marina Abramović… solo per fare alcuni esempi.
Quali sono i tuoi prossimi progetti curatoriali?
I prossimi mesi saranno intensi e mi vedranno impegnata in progetti diversi. A fine Marzo verrà inaugurata la mostra collettiva Vis à vis. Ritratti tra finzione e realtà presso l’Ossimoro Art Gallery di Torino. Successivamente mi sposterò a Cereggio (RE), antico borgo dell’Appennino Reggiano, per curare una residenza d’artista in collaborazione con KAMart in residence e la Galleria Bonioni di Reggio Emilia. Questo progetto avrà come tema le radici intese come legami nascosti presenti negli individui. Parteciperanno alla residenza tre artiste: Gabriella Gastaldi Ferragatta, Laura GuildA e Angela Viola. Sempre a Torino, sono stata selezionata come co-curatrice per il nascente progetto Art Factory di Paratissima. Le residenze della Factory avranno luogo da Marzo fino a Maggio e durante questo periodo verranno organizzati degli studio-visit e dei talk.
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