A volte concetti come la memoria o il tempo passano attraverso un percorso di creazione che trova nella materia nuove possibilità di riflessione. La ricerca artistica allora può permettersi di approfondire tematiche legate all’ambiguità e alla vulnerabilità della condizione umana, alla trascendenza della realtà e del presente, alla relazione tra visibile e invisibile. Questo processo creativo caratterizza i lavori di Elena Modorati, artista concettuale che, per mezzo di un approccio intimo e minimalista, riesce a dar forma alla percezione non solo dell’esistenza, ma anche dell’arte stessa.
La varietà dei materiali impiegati diventa la componente essenziale delle sue opere. Si passa, infatti, dalla cera alla carta di riso, dalla creta al marmo, dal gesso, all’ottone, alla pietra. I suoi lavori sono stati presentati in molte esposizioni sia personali, sia collettive. Tra queste ricordiamo “Resti”(2020), “Pan orem” (2019), “Paia” (2018), “Comfort zone” (2017), “Le voci della luce” (2017), “Crossing the Water” (2013). In queste mostre le sue creazioni sembrano sciogliere gli intrecci profondi di una dimensione esistenziale soggettiva, e aprirsi a un’altra spiritualmente universale. Confrontiamoci con l’artista.
Nei tuoi lavori utilizzi materiali che sembrano assumere delle modalità espressive intellegibili ma insolite, coinvolgenti e al tempo stesso ambigue. Come nasce il tuo processo creativo?
Il materiale è il fondamento, il canale di trasmissione che si esprime attraverso una specifica modalità. Nel lavoro si realizza un dialogo di sensibilità, si produce un innesto che disattiva i rischi retorici dell’intenzione. Sono molto mentale, tendenzialmente procedo per progetti. La fase manuale non è solo una verifica, ma un’esperienza ogni volta inedita.
Le tue opere approfondiscono soprattutto tematiche legate alla memoria, al tempo, alla realtà e all’esistenza, declinandosi in una dimensione sospesa, nella quale si avverte la valenza emotiva di quanto, sia nella vita che nell’arte, viene percepito come sfuggente o impercettibile. In che modo l’aspetto visivo dell’opera trascende quello analitico?
Credo che ambiguità e sospensione siano generati da questo approccio, per quanto confermino, ma in seconda battuta, un assunto analitico. L’arte che, alla lettera, prende corpo in una dimensione oggettuale, per funzionare non può che sintonizzarsi su questa banda.
“Resti” è il titolo di una tua mostra personale tenutasi al Gaggenau DesignElementi Hub di Milano (2020), dove quindici opere danno vita a un’esposizione minimalista, capace tuttavia di generare una narrazione silenziosa, profonda, quasi spirituale. Si va, infatti, dall’Altare in cera e pietra nera, ai Rocchi di gesso e cera appartenenti alla serie dei Capricci, dalla scultura Omphalos in ottone, fino al ciclo di opere fatte di carta e cera intitolato Calendari. Puoi parlarci di questi lavori e in che modo riescono a dar forma a concetti metafisici?
Nessuna metafisica, ma certo una dimensione spirituale, un concetto di sacro fisico e temporale intorno a cui ruota tutto il mio lavoro. Un concetto in parte limite, negativo (come il negativo di un calco), nominabile attraverso la tensione vitale – si può pensare alla sehensucht romantica – o il termine oltre; in parte positivo, come purezza, inespresso, vita inerme e silente. E’ una questione piuttosto complessa che implica una interpretazione dell’umano e del concetto di civiltà, e vede nell’arte il misterioso, prodigioso reagente che illumina, senza dare risposte dove in effetti non ci possono essere. Direi che l’atto artistico è il rito laico che interroga incessantemente la questione del sacro, mettendo in evidenza il parallelo tema dell’espressione e del senso. Quindi esistenza, storia, tempo, rapporto di individuale e collettivo, soggetto, mondo, specie.
La cera rappresenta uno dei materiali più utilizzati nella tua pratica artistica, introducendo una nuova modalità di concezione della realtà e dell’individualità. Quali possibilità espressive permette questo elemento materico?
La cera è un materiale viscerale e allusivo: la profondità della semitrasparenza è indolente e indefinita. E’ permeabile (quando in realtà è refrattario!), quasi attraesse la luce ed, effettivamente restituendola, il perimetro delle forme gioca con la luce, si sfuma e amalgama con l’ambiente. Dunque un materiale morbido, diafano, un po’ malinconico e molto relazionale.
Il tempo è un altro tema ricorrente del tuo lavoro. Per esempio nel ciclo di opere intitolate Calendari, le pagine di un diario visivo fatto di pensieri, riflessioni e frasi propri di un vissuto personale, intimo ed emotivo, sembrano galleggiare in una dimensione atemporale. Cosa esprime dunque il tempo nelle tue creazioni?
C’è una tragica discrepanza fra il tempo percepito, vissuto, e il tempo convenzionale, codificato e condiviso. Il mio tempo personale, lento al limite dell’immobilità, è il mio ingombrante sintomo. Il tempo può essere letto come storia e come clessidra, come radici e come ineluttabile scadenza biologica, dunque chiama ancora in causa la distanza fra singolo e collettività. Con lo spazio, il tempo è coordinata della misurabilità delle cose, ma per la fisica quantistica non esiste. Il tempo è poi ritmo, ciclo, narrazione, delle stagioni, di luce e buio, del respiro. E’ memoria, progetto, dialettica di presenza e assenza, e contemporaneamente inscindibilità degli opposti. Come ignorarlo? I Calendari, in particolare, prendono le mosse dai calendari dell’Avvento per bambini, in cui aprendo ogni giorno una casella si trova un’immagine nascosta, una sorpresa. Nei miei, al contrario, la sovrapposizione dei foglietti di carta, sempre corrispondenti ai giorni, non è “apribile”: la sorpresa è già lì, nella stessa dimensione del mistero, del “coperto”.
Pan orem (2019) è un’esposizione allestita alla Galleria Il Milione di Milano dove tre differenti tipi di installazioni, singole ma interdipendenti, diventano una riflessione sul concetto di sguardo e sulle possibilità intrinseche della visione. Come hai ideato le opere di questo percorso esplorativo?
Per diversi anni ho creduto di lavorare sui limiti della conoscenza, di cui le dinamiche della visione erano l’emblema. Poi mi sono resa conto di avere frainteso la questione, mi sono accorta che l’impossibilità di una “presa” certa, definitiva, è coessenziale alla realtà, ne indica la natura, la visione mai nitida, la sensazione di una “nebbia” che ingombra il campo, coglie l’effimero e l’ambiguità di ogni cosa, sguardo compreso. La nebbia è come la membrana comune che raccorda noi e il mondo. A questo punto pensiero e visione non sono più sovrapponibili. Il titolo Pan orem (da cui la parola italiana panorama), ossia vedere tutto, introduce degli esercizi di visione che mettono in scacco il pregiudizio, l’abitudine, inducono a uno spostamento di prospettiva fisica e mentale. Attraverso l’accostamento di opposti – giorno e notte, spessore e profondità, passato e presente, opacità e trasparenza, attrazione e repulsione, invito e divieto, chi guarda è accompagnato ad acuire l’attenzione, in un breve percorso “iniziatico”.
Nel tuo spazio espositivo lo spettatore sembra assumere un atteggiamento attivo, sviscerando l’essenza stessa dell’opera e sperimentando di conseguenza la propria emotività. E’ così?
Sicuramente il mio lavoro pretende un’azione, ossia che vi si accosti; non si impone. Quanto poi sia efficace… posso solo augurarmelo!
Invece nella mostra Paia, inaugurata al ProgettoArt Elm di Milano nel 2018, la serie di opere esposte si presentano come sequenze di una narrazione unica, che sembra mossa da una desiderio di comunicazione più intima. Puoi parlarcene?
In quel caso effettivamente si trattava di un progetto di matrice autobiografica, ma in qualche modo ogni progetto lo è. Così come ogni volta, se ci sono le condizioni, costruisco le mie mostre secondo un discorso unitario, lavorando sullo spazio specifico e sullo sviluppo di questioni intrecciate. Diciamo pure che si tratta di diverse declinazioni, di accenti diversi, ma poi i grandi temi che attraversano un lavoro sono nuclei di senso intorno a cui si gira, magari avvicinandosi gradualmente, grandi ossessioni che accompagnano tutta la vita. Paia ha elaborato la fine di un amore, ma è anche una riflessione generale sul tema della relazione, così come, per esempio, la mia produzione di nature morte o, in assoluto, ogni operazione installativa.
Quali sono stati gli artisti che ti hanno influenzata e da cui trai ispirazione?
Fare nomi particolari è un po’ riduttivo. Sento di avere un debito totale verso tutta la storia dell’arte. Tutti gli artisti che ho amato e che amo, le letture, i luoghi, ma anche verso tutto quello che mi ha irritata, perché comunque mi ha provocata a un approfondimento critico. Dall’archeologia alla poesia, dall’architettura al cinema, alle arti decorative, tutto mi ha influenzata! Se poi devo pensare agli artisti viventi che ammiro particolarmente mi vengono subito in mente Roni Horn e Paolo Icaro.
Puoi parlarci dei tuoi progetti futuri?
Ho alcuni progetti in programma, di diversa natura, ma quel che mi preme è che vivo una fase di estrema inquietudine interiore che sto provando a tradurre in lavoro. La sfida è fare evolvere il lavoro, forzarne i confini, sia in direzione di una maggiore conquista di me stessa, sia di una ulteriore apertura alla storia, al mondo a cui appartengo.
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Biografia: Elena Modorati è nata a Milano, dove vive e lavora, nel 1969. Si è laureata in filosofia all’Università degli Studi di Milano. Collabora con Cramum dal 2014 prendendo parte a due importanti mostre curate da Sabino Maria Frassà: Pulvis Es nel 2014 e Il cielo sopra di me e dentro di me che cosa? nel 2019. Nel 2014 immagini di suoi lavori hanno corredato il numero monografico (In)actualités de Derrida della rivista “Rue Descartes” in occasione del decennale della morte del filosofo. Sue opere fanno parte di numerose collezioni pubbliche e private tra cui la collezione di Palazzo Ducale, Gubbio e della Pinacoteca di Monza. Tra le sue esposizioni più importanti: BAG Bocconi Art Gallery, nel 2014, Università Bocconi, Milano, Musée d’art contemporain Arteum, Châteneuf-le-Rouge, Aix-en-Provence, a cura di Christiane Bourbon e Arafat Sadallah, Italian Insitute of culture, Mexico City, a cura di Raffaella De Chirico; Kairos, Le supermarché des images, nel 2020, Jeu de Paume, Paris, a cura di Peter Szendy, Emmanuel Alloa e Marta Ponsa.