Può la fotografia avere una capacità figurativa tale da raccontare la temporalità dell’esistenza? A questa domanda sembra voler rispondere Greg Sand, artista/fotografo americano che utilizza fotografie ritrovate per esplorare concetti come la memoria, l’assenza, la perdita e la morte. Nei suoi lavori, infatti, queste tematiche emergono attraverso una manipolazione delle immagini che restituisce una connessione quasi surreale tra la figura esistente ritratta nella fotografia e il conseguente vuoto ineluttabile al quale è destinata.In verità ciò che Sand cerca di mettere in discussione è il ruolo tradizionale del “contenitore” fotografia, o meglio della sua natura concettuale di definire la realtà. Questa sua ricerca è condotta avvalendosi della tecnologia digitale e di partiche artistiche come il collage, che permettono all’artista di esplorare la frammentazione e la transitorietà delle immagini e del loro contenuto grazie a un continuo rimando tra passato e futuro, tra presenza e assenza. Ne deriva un senso di turbamento, di disorientamento, se vogliamo di malinconica riflessione su come la fotografia, sebbene abbia il potere di immortalare un momento all’apparenza infinito, si riveli in realtà sfuggevole quanto la vita. Molti di suoi lavori da Echoes a Chronicle, da Absence a Vestige fino a Remnants (per citarne alcuni) enfatizzano questa sorta di verità contrastante che traspare dalla lucida scomposizione della realtà e della memoria. Parliamone direttamente con l’artista.
Nei tuoi lavori utilizzi la fotografia come mezzo per esplorare aspetti legati alla memoria, alla perdita, all’assenza e alla morte. Quella che emerge è un’atmosfera malinconica, quasi surreale, nella quale l’immagine figurativa e il concetto di fugacità della natura umana creano una sorta di disorientamento percettivo, ma in qualche modo soprattutto emozionale. Come descriveresti le tue opere?
Descriverei il mio lavoro come concettuale con un accenno di surrealismo. Lo considero discreto e tranquillo con un tono sia cupo che nostalgico. Si tratta quasi sempre di uno sforzo per elaborare i temi che avete menzionato: memoria, perdita, assenza e morte. Molto spesso è un tentativo per riconciliare la realtà che viene presentata all’interno di una fotografia con quella che esiste invece al di fuori di essa.
Antichi ritratti, ferrotipi, istantanee, fototessere, uso di giustapposizioni, collage, stereoscopio, collodio: dove prendi il materiale per il tuo progetti e in che modo pianifichi il tuo processo artistico?
Trovo i materiali essenziali per realizzare le mie opere principalmente su eBay, nei negozi di antiquariato e nei mercatini delle pulci. L’ispirazione viene spesso dalle stesse fotografie ritrovate. I sentimenti di malinconia e disorientamento che esse producono su di me molte volte guidano il mio lavoro. Un’idea per un nuovo approccio oppure un nuovo progetto può semplicemente arrivare passando in rassegna la mia collezione di fotografie ritrovate.
I tuoi progetti dunque si caratterizzano per l’uso di materiale fotografico ritrovato, che viene di volta in volta manipolato, alterato o combinato. In questo modo la definizione tradizionale di fotografia, normalmente legata alla nozione di verità, viene superata e la realtà sembra confondersi e rivelarsi nell’incontro tra passato e futuro, tra tempo e morte. Quanto il medium fotografico e le nuove tecnologiche possono incidere sulla sperimentazione di nuovi percorsi artistici? E quanto incidono sul tuo?
La fotografia è stata a lungo considerata una rappresentazione diretta e non mediata della verità. (Anche se questo è meno vero nel mondo digitale odierno.) Nel mio lavoro utilizzo questa nozione di verità quale punto di partenza. Una foto può mostrare una classe di laurea degli anni venti. La verità presentata nell’immagine è che questi giovani sono vivi e pieni di potenziale, con tutta la vita davanti a loro. Tuttavia, nella realtà tutti quelli che sono presenti nella foto sono morti o vicini alla morte. Sono proprio queste verità contrastanti che mi interessano. Devo dire che non sono sicuro del momento in cui tutto ciò è iniziato, ma la natura della realtà, compresi il tempo e la morte, era qualcosa che avevo spesso in mente molto prima che decidessi di entrare nel campo della fotografia. Penso che abbia qualcosa a che fare con la mia natura introversa e contemplativa.
In Echoes usi il contrasto per sottolineare quanto il ricordo possa essere imperfetto, falsato: l’acqua diventa cielo e la figura umana rivive nel riflesso distorto di se stessa. Quali sensazioni cerchi di produrre attraverso questo rovesciamento di impostazione?
Echoes esplora la lotta per conservare un lucido ricordo dei propri cari perduti. Questa serie utilizza fotografie ritrovate di persone vicino all’acqua nelle quali le figure sono state rimosse e le immagini sono state invertite. Il soggetto diventa il riflesso del soggetto; ciò che è fisico diventa spirituale; e il cielo diventa l’acqua. Quello che rimane è un ricordo imperfetto, distorto ed elusivo. Penso che i riflessi sull’acqua servano come metafora per riflettere sul concetto di perdita. Inoltre li considero un simbolo di vita, trasformazione e cambiamento di condizione.
Invece in Chronicle, uno dei tuoi lavori più rappresentativi, esplori i processi cognitivi e frammentati della memoria. I ricordi, infatti, vengono evocati attraverso dettagli di gesti, mani, facce, fiori, scarpe e drappeggi. Puoi parlarci di questo progetto?
Questa serie ha avuto inizio come un’esplorazione sull’enorme portata dell’umanità, sulla sua storia e sull’insignificanza dell’individuo. Volevo trovare una rappresentazione visiva delle approssimativamente 6,393 morti che si verificano ogni ora nel mondo. Ho scelto le fotografie ritrovate perché esse riescono a mostrare la temporalità della vita, e ho iniziato a mettere insieme le foto per raccogliere i 6.393 volti necessari per realizzare il lavoro Chronicle: Passing (6,393 Per Hour). Mentre ordinavo il mio vasto assortimento di foto, ho notato altri elementi (come le mani, i piedi, le ombre) che pensavo sarebbero stati interessanti in questo formato. Questi argomenti continuano a esplorare il tema della mortalità e della perdita, ma si concentrano ancora di più sulla natura della memoria e del tempo. Ho ritenuto che fosse importante utilizzare il collage analogico, al contrario del digitale, per presentare ogni fotografia antica come un oggetto fisico. Ciò enfatizza gli effetti del tempo sulla superficie – graffi, sbiadimento, scolorimento – nonché la qualità tattile che è unica per ogni frammento. Ero affascinato dalle interazioni delle varie trame, valori e colori che sviluppavano. Mi accorgevo che il mio occhio rimbalzava dal chiaro allo scuro, dall’opaco al lucido, dal luminoso al cupo, dal ruvido al liscio. Da una certa distanza i pezzi sono diventati come masse di pixel che richiedevano di avvicinarsi molto per scoprire ogni immagine individualmente.
Un altro motivo ricorrente nel tuo processo artistico è quello dell’assenza (citiamo, tra le altre, opere come Once Removed, Absence, Vestige, Traces, Memento). Questo concetto viene reso attraverso la rimozione digitale del soggetto o la sua riflessione inconsistente. In che modo questo procedimento forzato della fotografia riesce a preservare l’esperienza della perdita ed evidenziare la nozione conflittuale della realtà?
“Dandomi il passato assoluto della posa… la fotografia mi dice della morte al futuro… Rabbrividisco per una catastrofe che è già avvenuta”. Queste parole tratte da Camera Lucida di Roland Barthes descrivono con precisione il modo in cui mi sento quando osservo una fotografia talmente vecchia che il soggetto deve essere morto. La mia risposta ha una serie di livelli: sento un’immediata connessione con la persona che vive nella fotografia, seguito dal timore di ciò che inevitabilmente accadrà loro, completato da un senso di dolore per ciò che, ovviamente, è già successo. La rimozione del soggetto – che nell’immagine è di gran lunga in vita – costringe la fotografia a rappresentare in modo più veritiero una realtà presente nella quale il soggetto non è più in vita. L’assenza lasciata dove una volta si trovava il soggetto ricorda anche allo spettatore la perdita che è già avvenuta.
Parliamo di Remnants, una serie nella quale tre diversi tipi di foto, scattate in differenti momenti, vengono ritagliate e combinate, generando un ritratto assemblato, un unicum, per ognuno dei soggetti raffigurati, ormai morti. Questa operazione sembra mettere insieme i pezzi di memoria con lo scopo di rievocare l’intera esistenza di ogni singola persona. Come se, semanticamente, “parte” e “intero” fossero due concetti speculari. Puoi parlarcene?
L’idea di Remnants è nata pensando al modo in cui i momenti delle nostre vite sono intrecciati insieme per formare la nostra memoria collettiva. Volevo tentare di rappresentare fisicamente questi momenti e intrecciarli effettivamente insieme. Sono giunto alla conclusione che le immagini mentali delle persone amate sono tra i più potenti ricordi visivi, così ho provato a creare le sembianze degli individui deceduti che restituissero una fusione evocativa delle loro apparizioni nel corso della vita, piuttosto che mostrare rappresentazioni visive accurate delle persone in un dato momento. La parte più impegnativa di questa serie è stata trovare tre fotografie della stessa persona, provenienti da diversi momenti nel tempo, che fossero abbastanza simili alla stessa angolazione. Ciò ha richiesto un sacco di ricerca tra le foto di famiglia. Una volta in possesso delle immagini giuste, le ho digitalizzate, ho realizzato stampe nelle quali i volti avessero le stesse dimensioni, le ho tagliate in strisce, e le ho intrecciate insieme. Il titolo Remnants fa riferimento ai pezzi di stoffa avanzati perché questa serie usa il tessuto come metafora della memoria. Come scrive Peter Stallybrass in Worn Worlds: “La magia del tessuto è che ci riceve: riceve i nostri odori, il nostro sudore, persino la nostra forma.” Anche questa è una delle meraviglie della memoria: percepiamo ogni momento della nostra vita; e questi attimi vengono infine intrecciati insieme per formare la nostra memoria.
Nel tuo manifesto citi Camera Lucida di Roland Barthes. Quanto questo testo e il suo autore ti hanno influenzato? E ci sono altri artisti o teorici da cui trai ispirazione?
Stavo esplorando i temi dell’assenza e della perdita prima di scoprire la Camera Lucida di Roland Barthes, in effetti lui descrive perfettamente l’impatto emotivo che le vecchie fotografie hanno su di me. Questo libro mi aiuta a capire perché sono così attratto dal lavoro con le vecchie fotografie e dal trasmettere le intenzioni delle mie opere. Duane Michals, Disfarmer, Joseph Cornell, M.C. Escher, René Magritte, Susan Bryant, e Billy Renkl sono alcuni altri personaggi che influenzano il mio lavoro.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
Attualmente sto lavorando su delle opere che nell’approccio sono simili alla mia serie Chronicle. Mi sono sentito un po’ ‘più libero rispetto a questi lavori, tanto che sto sperimentando la fotografia a colori e le dimensioni, la forma, e la disposizione degli elementi della griglia. Sto inoltre lavorando a una serie di collage realizzati con cartoline e francobolli. È in qualche modo un punto di partenza per me, in quanto riguarda più la bellezza estetica ed è meno cupo della maggior parte del mio lavoro.
Biografia: Greg Sand è un artista che esplora le questioni del tempo e della morte. Produce lavori che affrontano la natura della fotografia e il suo ruolo nella definizione della realtà. Sand ha conseguito il BFA in Fotografia presso la Austin Peay State University nel 2008. Ha ricevuto riconoscimenti da molti giurati, tra cui la mercante d’arte di Chicago Catherine Edelman, l’assistente curatrice del Guggenheim Ylinka Barotto e artisti acclamati come Shana e Robert ParkeHarrison. Sand attualmente lavora a Clarksville, nel Tennessee, ed espone in tutti gli Stati Uniti.