Intervista con il giovane pittore italiano che sperimenta tecniche iconografiche diverse per rileggere l’arte della rappresentazione figurativa.
La fotografia, l’immagine digitale e la pittura sono tre fasi strettamente collegate fra loro attraverso le quali si articola il tuo lavoro. Puoi parlarcene?
Questi tre elementi (fotografia, immagine digitale, pittura) sono in effetti le tre fasi cronologiche attorno al quale generalmente si sviluppa ogni mio dipinto.
Nel caso della mia recente serie dedicata a Kurt Cobain ho creato una sorta di archivio di immagini trovate in rete. Da ogni singola immagine seleziono un eventuale taglio fotografico, dopodiché inizia una fase sempre piuttosto lunga in cui riproduco l’immagine in digitale. Questo processo è probabilmente la fase progettuale più importante, perché posso capire come eseguire l’opera, oppure individuare quante opere potrò tirare fuori da una singola immagine fotografica. Ogni tanto capita di non riuscire a tirare fuori nulla di soddisfacente e lavorare “inutilmente” per ore o per giorni. L’ultima fase è teoricamente una mera esecuzione: non faccio altro che riprodurre nuovamente un‘immagine digitale su di una tela. Tuttavia questa è una parte altrettanto cruciale ed è ovviamente quella che amo di più: tradurre in analogico un’idea digitale con tutti i contrasti che ne derivano.
La tua ricerca, dapprima legata a una rappresentazione figurativa, ti ha poi condotto alla realizzazione di opere dove la figura umana viene letteralmente eviscerata. Nei ritratti di Minimum Portraits, infatti, essa è sintetizzata in punti e linee coordinate. Cosa ti ha portato a questa trasformazione così radicale?
Questa sarebbe una storia molto lunga da raccontare, ma credo di poterla sintetizzare così. Sono profondamente attratto dalle infinite forme della pittura e a un certo punto della mia vita mi sono chiesto che cosa volessi davvero dipingere. Allo stesso tempo non ho mai sentito una netta preferenza tra i due grandi campi di questo medium (figurazione/ astrazione) e ho perciò iniziato a cercare un modo per ibridare le due forme. Questo tipo di approccio ha ovviamente causato repentini cambi di rotta, fino ad arrivare ad oggi. Cosa è accaduto durante tutto questo tempo? Ho capito che mi è impossibile separarmi da una matrice figurativa, ma allo stesso tempo ho anche compreso come si può eseguire un dipinto figurativo con un approccio del tutto astratto.
Il genere del ritratto è quello che più ti appartiene, e molto spesso ha una connotazione autobiografica. Che cosa rappresenta questa modalità artistica? Osservando le tue opere si ha infatti la sensazione che, ritraendo quei soggetti facenti parte del tuo vissuto, tu voglia restituire all’osservatore qualcosa di te stesso nascosto sotto la superficie.
Direi piuttosto che ho bisogno di rappresentare qualcosa che conosco o che mi appartiene, o forse perché un giorno potrò dire di aver fatto un autoritratto lungo una vita.
Il tuo ultimo progetto, presentato in occasione della mostra In my room alla galleria The Flat – Massimo Carasi, è ispirato dalla figura di Kurt Cobain. Un corpus di opere nelle quali il racconto rappresenta un décadrage su dettagli e azioni quotidiane e familiari dell’icona musicale americana, come ad esempio il fumare una sigaretta. In questi lavori, inoltre, si riscontra uno studio più approfondito del colore. I toni si fanno più scuri, e il nero e il blu diventano dominanti, restituendo una raffigurazione intima ma al tempo stesso un po’ malinconica. Com’é nato e si é sviluppato questo progetto?
È nato come uno scherzo, in un momento in cui non sapevo bene cosa fare. Ho infatti ritratto il famoso cappello di Kurt Cobain e in quel momento, probabilmente, mi sono reso conto che quel piccolo e stupido cappellino mi suggeriva qualcosa che dovevo approfondire.
Quali sono gli artisti che ti hanno inspirato o che ancora lo fanno?
Sono moltissimi. Non riesco mai ad avere le idee chiare sui chi siano i miei artisti di riferimento perché non sono neppure mai riuscito a capire chi siano i miei artisti o pittori preferiti. E a dirla tutta cerco di assorbire molto anche da altri ambiti. Sono, infatti, un divoratore di anime e manga, tanto che un occhio esperto può sicuramente notare alcuni riferimenti tecnici. Detto questo, è pur vero che dopo i 30 anni mi sto rendendo conto che alcuni nomi sono rimasti profondamente legati a me: Henri Matisse, Domenico Gnoli, Laura Owens, Alex Katz, Katsushika Hokusai.
Quali sono i tuoi programmi futuri? Sappiamo che stai lavorando a una serie di opere dedicate a un’altra icona musicale, questa volta però ai margini della subcultura artistica americana, ossia Daniel Johnston. Puoi accennarci qualcosa?
Da due mesi a questa parte è davvero complicato capire quali siano i programmi futuri del mondo intero e in questo momento ogni tipo di programma definito può saltare in aria da un un giorno all’altro. Posso dirti che mi sto dedicndo ad alcune serie nuove e che in effetti sto lavorando davvero bene. Un anno fa ho iniziato a occuparmi di un progetto riguardante Daniel Johnston, una figura che mi ha attratto moltissimo e che si può ritenere strettamente legata a Kurt Cobain. Sono entrato in contatto con lui e con suo fratello due mesi prima che Daniel morisse e questo evento mi ha toccato particolarmente. Non voglio portare avanti questa serie senza un’occasione adeguata, però sono abbastanza sicuro che prima o poi si presenterà.
Biografia: nato nel 1988, Andrea Carpita vive e lavora a Carrara. Frequenta il corso di Pittura all’Accademia di Belle Arti, sotto la direzione di Omar Galliani e Fabio Sciortino, dipolomandosi nel 2015. Ha preso parte a numerose mostre personali e collettive in Italia, presso il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato, il MAC Museum of Contemporary Art di Lissone, ed ha esposto a Parigi, Bruxelles e New York. Le sue opere sono incluse nelle collezioni di Raphaelle Blanga, esperta di arte contemporanea presso Sotheby’s, del collezionista Claus Busch Risvig, nella Collezione Coppola di Vicenza. Nel 2016 è artista e curatore di uno speciale progetto realizzato in occasione della mostra In the Depth of the Surface alla Fabbrica Orobia 15 di Milano, e nel 2018 alla Pablo’s Birthday Gallery di New York.
Inventiva e ottime capacità producono un lavoro eccellente. Bravissimo