a cura di Margeret Sgarra, curatrice di arte contemporanea
La Chigi, artista polimaterica nata a Bassano Del Grappa, si definisce “una creatricedi piccoli mondi”. I suoi lavori si focalizzano sull’individuo alle prese con l’esistenza, e con le relazioni che sviluppa in questo arco temporale. Le installazioni da lei create mettono in evidenza il concetto di “storia” utopica, distopica, ordinaria o straordinaria. Ha partecipato a diverse mostre collettive e personali realizzando, tra le altre cose, progetti di arte partecipata. Attualmente vive e lavora a Trento.
Nella tua ricerca è ricorrente l’utilizzo di piccolissimi personaggi che interpretano diversi ruoli all’interno della società, e che si confrontano con le criticità del nostro tempo. Come è nato questo interesse per l’essere umano e le sue storie?
Ho sempre amato le storie, come quelle che trovo nei libri e nelle immagini, oppure inventandole a partire dai nostri oggetti, quelli piccoli che, per le loro dimensioni ridotte, continuamente perdiamo. Ho sempre camminato guardando a terra, cercando storie negli oggetti persi, parti di vite altrui e pezzi di memoria. E’ stato un trauma fisico importante a farmi capire il mio bisogno di relazioni e connessioni. Così come il bisogno di storie e di incontri con gli altri mi ha dato la spinta per cercare, e trovare, un modo per comunicare con gli altri e conoscerli. Durante la pandemia l’assenza delle persone e l’impressione di un disagio montante a livello collettivo mi ha portato prima a immaginarne le storie, e poi a materializzarle in opere, con l’intento di creare una terapia contro il buio della paura nel quale rischiavamo di perderci. In Contenitori di pesce ho distillato storie surreali per concretizzare sentimenti ed emozioni in cui rispecchiarsi e che ci permettessero di incontrarci. Ora gli incontri continuano, fuori dalle scatole, anche grazie alle scatole.
La serie Janas mette in scena diverse storie all’interno di scatolette di alluminio. I racconti vengono realizzati assemblando tecniche differenti e objets trouvés. Come scegli i materiali delle tue opere?
L’opera è sempre il frutto di un concetto attorno al quale “materializzo” mentalmente i materiali che dovrò utilizzare, quindi ricercare o creare ex novo. E’ un procedimento lungo perché lavoro stratificando materiali e significati, a partire da oggetti di uso comune, preferibilmente di recupero e object trouvés, tracce di noi nel tempo. Lo scarto è per me occasione e motore d’arte. Gioco con i “limiti” degli oggetti, con la loro fisicità e utilità/uso, e anche con le loro potenzialità, sovvertendone l’uso, lasciandomi suggestionare dalla loro forma, dalle loro dimensioni e dal loro colore. Le scatole sono gli oggetti che più utilizzo. Sono, come tutti i contenitori, già portatrici “sane” di storie e, per le loro dimensioni ridotte, costringono a lavorare prima per rovesciamento e risignificazione, poi per sottrazione e sintesi. La scatola-contenitore vuota è già un condensato del mio lavoro che unisce dadaismo, surrealismo e arte concettuale, creando uno spazio allo stesso tempo intimo e collettivo.
Qual è l’opera di questa serie a cui ti senti maggiormente legata e perché?
Difficile scegliere. Tuttavia direi l’opera Déjà–vu, perché in essa ci sono anche io. L’opera è una riflessione giocosa e surreale sul valore dell’arte nella nostra vita, sulla sua necessità, soprattutto per la capacità che ha di farci comprendere il mondo e di darcene visione, traghettandoci oltre con consapevolezza. Déjà-vu perché l’arte parla a noi, di noi e di ciò che ci circonda. E’ l’opera che rispecchia di più la mia relazione con l’arte. Un’arte fatta di stupore, di reciproci rispecchiamenti, nuove visioni e prospettive. E, non ultimo, il lavoro con lo scarto, anche semantico. L’ironica dissonanza cognitiva su cui si basa, costringe a fermarci e a metterci in gioco per risolvere il “rompicapo” della realtà.
Alice and the ordinary extraordinary è una serie di opere dedicata ad Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll. Cosa ti ha portata a realizzare questo omaggio?
Alice nel paese delle meraviglie è uno dei miei romanzi preferiti. E’ un racconto giocoso pieno di nonsense, surreale e giocoso. Inoltre è una metafora di un certo approccio alla vita, con uno stupore infantile e con meraviglia. C’è un’intima poesia e una dimensione di sogno nella realtà che ci circonda. Troppo spesso la ignoriamo, impegnati a inseguire il tempo. Ma la letteratura ci aiuta a scoprirlo, educandoci all’osservazione e quindi all’immaginazione. Nei nostri scarti e negli oggetti che ci circondano si nascondono inaspettate sacche di significato, nuovi stimoli, e un sorriso che forse ci salverà non solo dal realismo, anche brutale, del quotidiano, ma anche dal funzionalismo degli oggetti, proiettandoci in nuove storie. Abbiamo bisogno di dare nuovo senso alle cose e di riconnetterci con noi stessi. Il gioco e la narrazione sono la strada.
All’interno del tuo lavoro sono presenti progetti che vedono il coinvolgimento diretto dell’individuo nel processo creativo, come nel caso di “Distanziamento”. Puoi raccontarci come si sviluppano i tuoi progetti di arte partecipata?
I progetti di arte relazionale nascono dall’individuazione di una piccola comunità marginalizzata che avrebbe bisogno di adeguato riconoscimento. Sono progetti molto lunghi perché interagisco in situazioni codificate, come in carcere, ad esempio con il progetto “(S)confinamenti”, non ancora concluso dal 2020. Oppure in momenti “critici”, per esempio durante la pandemia, che ritroviamo nel progetto “Distanziamento”, che ha richiesto oltre un anno. Quindi è necessario rivedere più e più volte il progetto iniziale nel corso del tempo per raggiungere l’obiettivo della creazione di un tessuto sociale nuovo, non solo in termini metaforici, attraverso l’ascolto e il coinvolgimento. In “Distanziamento” insieme a 14 signore di un Centro Anziani di Trento abbiamo trasformato la parola in un enorme collettivo arcobaleno (3,5m), superando così l’isolamento e il distanziamento imposto dalla pandemia.
Secondo te che funzione dovrebbe avere l’arte nella nostra società?
L’arte deve essere uno strumento di denuncia e di attivismo. Deve essere contemporanea, frutto, ma non specchio, di noi e del nostro tempo. E’ necessario, infatti, problematizzare e non semplicemente documentare il presente, evidenziandone le contraddizioni per aumentare la nostra consapevolezza su ciò che stiamo vivendo, magari cambiando prospettiva. L’arte deve quindi “contenere” riferimenti scomodi alla violenza domestica, all’ecologismo, al genere e alle relazioni, oltre a una riflessione sul linguaggio con il quale creiamo mondi, ponti o barriere e prigioni. Allo stesso tempo l’arte deve darci futuro. Non deve appiattirsi sulle storture presenti, ma farci fare bagni di realtà, e allo stesso tempo darci àncore di sogno e di libertà. Per fare questo, secondo me, l’ironia e il gioco sono fondamentali: creano straniamento e una dissonanza fertile in grado di stimolare riflessioni.
C’è qualche artista che è per te fonte di ispirazione?
Sono una divoratrice compulsiva di arte a 360°. Amo moltissimo il lavoro di Maurizio Cattelan e di Marina Abramovich. Il primo per la sua caustica ironia, e la seconda per la capacità di entrare in relazione profonda con lo spettatore. Sicuramente però è nell’arte delle neoavanguardie del Novecento che affonda le radici il mio lavoro: Duchamp e il movimento DADA per l’idea di ready-made in primis, ma anche il surrealismo e poi l’arte concettuale. Infatti, trasformo una scatola, meglio se di pesce, in una piccola casa/mondo, con oggetti che spesso sono trovati, poi li accosto a un principio surrealista, al fine di creare scenari onirici attraverso associazioni metaforiche e analogiche. L’aspetto concettuale emerge nei titoli che chiamano in causa lo spettatore e nel procedimento stesso di trasformazione dello spazio della scatoletta e dei contenitori in case interiori.