a cura di Romina Ciulli e Carole Dazzi
Il lavoro dell’artista inglese Darren Harvey-Regan restituisce un immaginario fotografico nel quale la semplicità della materia sottende a una complessità di significato e viceversa. Le sue opere, infatti, creano una connessione tra il soggetto rappresentato, la rappresentazione fotografica dell’oggetto e la stessa fotografia esposta. Questa relazione genera una tensione estetica che si appropria della fotografia e della scultura per approfondire le tematiche della sua ricerca artistica.
La materia fotografica diventa così lo spunto per analizzare le diverse prospettive di senso che si possono stabilire tra un’entità concreta e la sua immagine, attraverso un continuo rimando all’astrazione e alla realtà. L’incontro dialettico tra questi due medium dà quindi origine a uno spazio fisico e concettuale dove niente può essere definito, ma tutto può aggiungere significato a significato. Parliamone con l’artista.
Il tuo lavoro prende vita da un continuo passaggio tra scultura e fotografia: un perpetuo dialogare tra l’oggetto materiale tridimensionale, corporeo e la sua rappresentazione. In questo processo creativo la materia si trasforma costantemente, arricchendosi di nuovi significati, pur rimanendo sempre se stessa. Puoi raccontarci come nascono i tuoi progetti? E qual’è il ruolo giocato dalla fotografia e dalla scultura nell’elaborazione delle tue opere?
Per molto tempo la fotografia è stata il mio linguaggio di espressione principale. Perciò inizialmente avevo la tendenza a ragionare in termini fotografici e a domandarmi in che modo gli altri medium e le idee potessero relazionarsi con esso, oppure venire relativamente espressi attraverso la fotografia. Ad esempio le opere scultoree potrebbero svilupparsi dalla riflessione sulle caratteristiche tipiche della fotografia, e su come esse differiscono o si allineano con quelle della scultura.
Il mio lavoro Metalepsis in realtà è stato ispirato dalla letteratura, dal fatto che mi sono domandato come il linguaggio figurativo potesse trovare un equivalente nella fotografia. Gran parte del mio lavoro segue un approccio scultoreo, e poi fotografico come risultato finale. Molti pezzi hanno ricreato tropi fotografici nella vita reale, come gli strumenti di taglio che sembrano fotomontaggi, o il vaso dipinto che sembra lo spazio vuoto della scacchiera di Photoshop. Il fatto che la fotografia abbia la capacità di creare oggetti rende gli oggetti stessi un argomento affascinante. A differenza degli esseri viventi, degli effetti o delle vedute, forse gli oggetti conservano la maggior parte delle loro caratteristiche nella traduzione fotografica. O almeno in generale appaiono abbastanza vicini al modo in cui li vediamo nella vita reale: l’occhio e l’obiettivo non sono così dissimili. Quindi per me le fotografie di/con/come oggetti creano un contesto intrigante, offrendo la massima sovrapposizione tra il mondo così come lo vediamo e il mondo come lo rende la fotografia. È qui che la relazione di reciprocità con la fotografia si fa più intensa.
I tuoi lavori sono caratterizzati da forme pure e materiali naturali. Si tratta di pochi elementi e semplici oggetti che non saturano la visione dello spettatore, ma al contrario sembrano alludere a una sorta di mancanza. Nelle tue opere, infatti si avverte la sensazione di osservare uno spazio dal quale qualcosa è stato sottratto, un’assenza intrigante che sottende una storia più profonda nascosta dietro a ciò che osserviamo. Puoi dirci qualcosa di più sul modo in cui concepisci la composizione dell’immagine? Esiste davvero questa dimensione “altra” che sembri suggerire?
Questa è una domanda affascinante e profonda. Prima di tutto, per ciò che riguarda la composizione mi ritrovo a fare del mio meglio per cancellare l’ovvia presenza della macchina fotografica. Con questo intendo fotografare a fuoco nitido, frontalmente, senza alcuna evidente tipica tecnica fotografica. In questo modo mi avvicino il più possibile al nostro modo di vedere, che del resto rende le differenze più sottili, le prospettive forzate, il monocromo, il disegno aggiunto, l’alterazione di oggetti originali, i cambiamenti e gli spostamenti materiali, ecc., a vantaggio di uno sguardo più ravvicinato, più rallentato e ponderato. In questo senso è presente questo slittamento tra le apparenze iniziali e la realtà, tra ciò che sembra essere mostrato e quello che realmente viene mostrato. Sono affascinato dalla tua frase che allude al fatto che l’insieme delle opere sembra alludere a qualcosa che manca, “un’assenza intrigante”. Penso alla citazione (spesso storpiata) di Morandi, poiché si riferisce alla storia più profonda – come dici tu – dell’apparenza, della prospettiva e dell’interpretazione: “niente può essere più astratto, più irreale di ciò che effettivamente vediamo. Sappiamo che tutto ciò che possiamo vedere del mondo oggettivo, come esseri umani, non esiste mai veramente come lo vediamo e lo comprendiamo. La materia esiste, certo, ma non ha un proprio significato intrinseco, come non ha i significati che le attribuiamo”.(Dialoghi, p106).
La fotografia è un mezzo che guarda, che ci mostra mentre guardiamo. E quindi domanda sempre chi sta guardando, e da quale prospettiva. Il mio lavoro di MA considerava l’animale come un luogo di proiezione umana. Non essendoci nulla che noi possiamo essenzialmente sapere del modo di essere dell’animale, della sua comprensione di se stesso e del mondo in relazione a quel sé. Quindi forse quel qualcosa di più profondo è il mistero di ciò che si cela dietro le nostre stesse interpretazioni, il nostro sguardo umano. Questa dimensione “altra” esiste certamente, ma, come dice Morandi, non abbiamo modo di accedervi. Eppure riflettere su questo è un modo per sfidare i nostri punti di vista su qualsiasi cosa, per considerare le nostre prospettive con leggerezza.
Metalepsis è, invece, un’opera concepita come un’installazione fatta di cornici, immagini e materiali che, attraverso un silenzioso dialogo, sembrano mostrarci un racconto che rimane sospeso, frammentato in tanti puntini che lo spettatore deve collegare. Tu l’hai definita un “accumulo di echi.. una sorta di verso poetico, una sintassi visiva dove immagini, materiali e cornici si citano, si introducono, si incontrano e si ri-citano..”. Qual è stata la fonte di ispirazione di questo lavoro? Che cosa risuona in queste immagini?
La fonte d’ispirazione è stata il cercare di lasciare andare quelle che erano le specificità concettuali di un’opera, e in modo che mi consentissero un avvicinamento verso un senso più soggettivo di connessione e ambiguità necessario a collegare tra loro i pezzi. Avendo completato una mostra in cui tutte le opere avevano una chiave di lettura piuttosto precisa, come gli strumenti tagliati, i dipinti a scacchiera, ecc., mi sono ritrovato a fissare il muro di tracce visive inconcludenti ed esperimenti su cui avevo lavorato in studio l’anno precedente chiedendomi cosa dovesse venire dopo. C’erano così tanti rimandi visivi tra quelle idee, così tante connessioni chiaramente presenti. Eppure erano difficili da definire con precisione all’interno del linguaggio. Sebbene mi sembrassero più sciolti e ambigui, apparivano comunque altrettanto pertinenti, un’espressione altrettanto valida della ricerca e delle idee che stavo seguendo. Ho spesso fatto parallelismi tra il mio processo lavorativo e il linguaggio. E qui ho cominciato a chiedermi come potrebbe essere una metafora puramente visiva. Come si esprime una similitudine attraverso la fotografia?
Metalepsis è un termine letterario che descrive l’uso figurativo del linguaggio figurativo, come una stratificazione di metafore. Mantenendo il senso di connessione tra immagini realizzate in un periodo simile, anche se inizialmente non stavano bene insieme, questi raggruppamenti slegati sono diventati gradualmente un’unica installazione in cui immagine, contenuto, materiale, forma, cornice, scala, colore sono diventati tutti come parole, disposti poeticamente a citarsi e ri-citarsi a vicenda, a parlare letteralmente e figurativamente l’uno dell’altro. Ciò ha anche consentito a una narrazione personale di insinuarsi come se fosse uno di questi strati, contenuti relativi alla mia educazione cristiana e all’eventuale rifiuto della fede, immagini che non ero mai stato del tutto in grado di giustificare al di fuori di un tutto, ma ora, anni dopo , ha cominciato a essere dominante nel mio lavoro.
Parliamo dei cicli di opere The Erratics (exposure) e The Erratics (wrest). Nel primo nucleo fotografico sono rappresentate delle formazioni rocciose erose da vento e sabbia del deserto. Nel secondo, invece, ci sono fotografie che rappresentano delle sculture da te realizzate con massi in gesso raccolti sulla costa inglese. Il termine Erratics (erratiche) indica rocce trasportate a fondovalle da un ghiacciaio che si trovano, una volta scioltosi il ghiaccio, a essere lontane dal loro luogo di origine, in una posizione nuova e insolita. Ecco così il riferimento alla tematica dello spostamento, al vagare verso una meta estranea e al cambiamento che produce la diversa posizione di un corpo nello spazio. Quali sono le motivazioni alla base di questo progetto?
Il modo in cui avete formulato la domanda mi ha portato per la prima volta a considerare me stesso il potenziale erratico! Mi piace. Ho una varietà di risposte sulle origini di questo progetto, per lo più legate all’arte. Ma se mi attengo a questa traiettoria più personale, allora creativamente ero arrivato ad un punto morto. Dopo essermi messo all’angolo attraverso i vincoli del mio io, dello stile che mi ero imposto ero rimasto bloccato a fotografare isolati oggetti minimalisti nel mio studio londinese. Ero rimasto concettualmente intrappolato dall’idea di soggetto e di cosa esattamente dovevo fotografare. Il mondo stesso sembrava troppo ricco, tutto veniva fornito con una matrice di associazioni e contesti. E nel cercare di parlare attraverso la fotografia e della fotografia, non volevo tutte quelle altre associazioni e non vedevo come sfuggirvi.
In questa fase, ho letto il saggio di Wilhelm Worringer “Astrazione ed empatia” e mi ha colpito profondamente. Stava scrivendo appena prima del punto di svolta del cubismo, e in risposta a molte produzioni di artigianato e abbigliamento indigeno che stava diventando culturalmente più diffuso. La sensazione generale era che il lavoro era affascinante quanto lo era anche nelle sue forme e nei modelli astratti. Era il risultato di persone primitive che non avevano la capacità di dipingere, disegnare o scolpire realisticamente nel modo in cui l’arte occidentale apprezzava. Ha contestato tali affermazioni e ha proposto il fatto che queste opere non avessero mai mirato al realismo, ma piuttosto derivassero da un intento completamente diverso. Worringer ha proposto uno spettro di intenti artistici che andava dall’empatia all’astrazione: l’empatia è l’arricchimento di se stessi attraverso l’esperienza dell’identificazione e della rappresentazione del mondo così com’è, così come si trova in sé. Egli ha suggerito che l’astrazione ha recepito il mondo come minaccioso, troppo caotico, sforzandosi di ridurlo a forme più gestibili. Ho visto in tutto questo spettro di intenti non solo un modo di pensare alla fotografia nel suo rapporto con il mondo, ma una descrizione delle mie stesse paure e desideri, questa voglia di essere immerso nel mondo ma allo stesso tempo di esserne estraniato. In quel particolare momento ero stato coinvolto in un progetto di architettura e stavo cercando di astrarre alcuni materiali grezzi per realizzare delle composizioni. La costruzione era rivestita di gesso.
Nella mia ricerca, mi sono imbattuto in immagini del Deserto Bianco in Egitto – grandi monoliti di gesso che spuntavano dalla sabbia – e ne sono rimasto affascinato. Il saggio e la possibilità che mi ha risvegliato si collegavano a questo luogo, e nel giro di un paio di settimane ero lì. È stata forse la cosa più irrazionale e spontanea che abbia mai fatto! Quindi essenzialmente sono andato nel Deserto Bianco per fotografare degli enormi pilastri di gesso, resti di un fondale oceanico ora eroso in forme rovesciate dalla sabbia e dal vento. E, in tutta onestà, non avevo idea di cosa avrei fatto con quelle immagini. Si trattava semplicemente di interrompere il mio stallo creativo, concedendomi la libertà di fare qualcosa che non facevo da anni, portare una macchina fotografica nella natura. E le immagini che ho riportato, come oggetti erratici, trasferite letteralmente e concettualmente in un altro luogo, alla fine sono diventate il catalizzatore per le mie sculture in gesso.
Puoi parlarci dei tuoi progetti futuri?
Il mio corpus di lavoro più recente si è intrecciato maggiormente ai fili della narrativa personale di cui ho parlato. Mi sono interessato all’idea di un’iconografia legata allo scetticismo, cioè, avendo scelto attivamente di schierarmi contro il cristianesimo, a un consapevole scambio di fede con lo scetticismo. Stavo guardando Silence di Martin Scorsese e la scena in cui un nuovo convertito riceve il crocifisso mi ha improvvisamente colpito, ossia come questo scambio, questo ricevere ed ereditare un’iconografia, sia stato tradotto in un linguaggio visivo. Mi sono chiesto come potrebbe funzionare, che aspetto avrebbe essenzialmente per me, come qualcuno che sceglie specificamente di essere scettico. Un’immaginario nato da un movimento lontano dal cristianesimo, ma che ha comunque fatto ricorso alle sue forme. C’è molta continuità tra le mie idee sulla fede e il mio lavoro. Il mondo è diverso da come ci appare.
Un modo di guardare e vedere per mezzo del quale le domande hanno ottenuto apparenze e interpretazioni, oltre alla costruzione di prospettive e narrazioni. All’interno dell’iconografia è insita l’idea del prototipo, la fonte originaria da cui attinge un’icona. E ovviamente si ha l’idea di Cristo come immagine di Dio, immagine che storicamente in Occidente ha convalidato la possibilità stessa dell’immagine. Il cristianesimo è il fondamento di tutta la nostra arte e teoria occidentale e, in termini di tempo, non siamo davvero così lontani da un’immersione totale in esso. È un’area difficile su cui lavorare e non posso dire che si sia dimostrato facile. Attualmente sto lavorando a sculture che sono iniziate come un processo fotografico ma che, almeno per il momento, sembrano essersi lasciate alle spalle le loro origini fotografiche. La fotografia è un mezzo affascinante ma anche tendente al narcisismo, che parla sempre di se stessa e soprattutto a quelli che la praticano. Quindi immagino che al momento sia diventato il punto di origine del mio stesso lavoro, ma questo si è evoluto molto, al punto in cui mi chiedo quanto siano diventati tesi i legami.