Scritto da Valentina Biondini, appassionata di letteratura
Poiché a essere dimenticate non sono solo le artiste donne, “Who’s Next?” ha deciso di occuparsi di un giovane artista uomo, il cui approccio moderno alla pittura si può definire ante litteram, e la cui vicenda personale ha alimentato il mito del pittore folle. Si tratta di Gino Rossi, una figura ingiustamente trascurata non solo dal mondo artistico in toto, ma anche dalle giovani generazioni di pittori che invece tanto gli sono debitrici.
Gino Rossi (all’anagrafe Luigi Rossi) nasce a Venezia nel 1884 in una casa di Calle degli Orbi, nel rione San Samuele, da una famiglia benestante. Suo padre infatti è il fattore del conte Enrico Carlo di Borbone-Parma. Studia dapprima presso il Collegio degli Scolopi e poi al Liceo Foscarini che, però, abbandona nel 1898. Colto, raffinato e con una naturale predisposizione per gli studi letterari, molto presto va alla ricerca di una pittura internazionale moderna, cogliendone gli echi e le tendenze anche oltre i confini d’Italia.
Così, nel 1907, Rossi lascia la laguna alla volta di Parigi, con l’amico scultore Arturo Martini. Qui viene travolto dalla pittura di Van Gogh e dei Fauves. Ma soprattutto sono i colori e le forme delle opere di Paul Gauguin a sbalordirlo. A Parigi torna di nuovo nel 1912, sempre con Arturo Martini, dove espone al Salon de l’Automne, accanto ad Amedeo Modigliani. Per seguire le orme di Gauguin, che di lì a poco diventerà il pittore di Tahiti, si reca in Bretagna: un soggiorno che si rivela per lui una grandiosa scoperta. Qui trae ispirazione, ad esempio, per la composizione del famoso dipinto “La fanciulla del fiore” (1909,) che Rossi definisce «la sua poesia più bella». Si tratta dell’immagine impenetrabile di una ragazza imbronciata, il cui viso è simmetricamente evidenziato nella sua enigmatica bellezza da due vasi di fiori immersi nel blu.
Tornato in patria pieno di idee ed emozioni, inizia a esporre alle mostre del Museo di arte moderna di Ca’ Pesaro, che al tempo si distingueva come il polo delle avanguardie, in opposizione alle esposizioni ufficiali della Biennale di Venezia. Proprio dietro l’appellativo di Avanguardia Capesarina si celano degli artisti, primo fra tutti appunto Rossi, che sperimentano forme d’arte di ispirazione europea, in controtendenza rispetto sia all’esplosione del Futurismo, sia al silenzioso maturare della Metafisica, due correnti che contrassegneranno l’arte italiana del primo Novecento. Il suo primo periodo artistico, ravvisabile dal 1908 fino alla chiamata alle armi del 1914, si caratterizza per opere di esaltante colore, aventi per soggetto paesaggi bretoni, descrizioni asolane e vedute di Burano, eseguite durante i suoi soggiorni a Asolo e a Burano, dove si ritira a vivere a partire dal 1911, forse per il suo carattere schivo e il suo spirito aristocratico.
In questa specie di esilio volontario cerca di dar vita a un cenacolo artistico, nel tentativo di riproporre, in questa piccola e defilata isola veneziana, la mitica Bretagna di Gauguin che tanto aveva influenzato la sua pittura. Si tratta di quadri di innata esuberanza, dove i colori luminosi, come il blu, il verde e le tonalità terrose si confondono all’interno di un contesto che appare indefinito, sospeso. Le immagini, infatti, sono semplificate, senza insistenza sui particolari. È questa la fase in cui matura la sua poetica delle figure senza paesaggi e dei paesaggi senza figure, come la “Testa di pescatore” o “Descrizione asolana”.
Oltre ai paesaggi, nei lavori di Rossi hanno grande rilievo i ritratti. Nella scelta dei soggetti da ritrarre, il pittore dimostra una certa predilezione per gli ultimi, per gli umili e, più in generale, per coloro che vivono ai margini della società, come si può ben vedere nell’opera “Pescatore Buranese” (1912-1913). Questi aspetti sono resi dall’artista attraverso pennellate quasi imprecise, che delineano personaggi dai tratti rugosi e dalle espressioni indurite. Quando invece si tratta di soggetti femminili, Rossi sceglie popolane, spesso già madri, vestite di semplici abiti scuri che si contrappongono nettamente ai ritratti delle donne borghesi o aristocratiche, come “Maternità” (1913) e “Ritratto di Signora” (1914). In quest’ultimo lavoro, la donna del titolo appare raffigurata con il volto scarno e le vesti semplici, in una posa e in un’atmosfera che richiamano le suggestioni espressioniste che Rossi assimilò nel suo soggiorno francese. Non sono dunque opere raffinate, anzi a volte spiacevoli e crude, ma veritiere perché mostrano il duro lavoro e la fatica.
Il suo secondo periodo artistico, che va dal 1918 al 1925, trova molto cambiati sia l’artista sia la sua pittura. Quest’ultima, risalendo alla lucida lezione di Cézanne, vira verso il Cubismo, con il colore divenuto fantastico che punta a trascendere la realtà anziché semplicemente a raffigurarla. Nascono allora opere come “Fanciulla che legge”, “Testa di ragazza” o “Natura morta con brocca”. Soprattutto in questa tela riecheggiano le inclinazioni cubiste: gli oggetti infatti trovano posto così come sono sul tavolo, all’interno di un’atmosfera dai toni tendenti al blu.
Va detto in realtà che nel panorama italiano questi sono anni di un diffuso rifiuto delle avanguardie e di riscoperta dell’Antichità. Ciononostante Rossi, fedele alla propria autonomia artistica, persegue un percorso alternativo che anticipa soluzioni e tendenze che attecchiranno solo nel secondo dopoguerra, tanto che le future generazioni di artisti lo riconosceranno come un precursore del Neocubismo. Sono le opere di questo secondo periodo a porlo tra i più grandi artisti alla base dell’arte moderna italiana, come riconosciuto dalla critica, anche se solo anni dopo. Tra il primo e secondo periodo artistico si colloca, però, la I Guerra mondiale: uno spaventoso trauma che segna Rossi nel profondo e ne mina irrimediabilmente l’equilibrio mentale. Nel 1925 il suo male di vivere si acuisce fino al punto da condurlo nel manicomio di Sant’Artemio di Treviso. Proprio da qui, probabilmente dalla finestra della sua stanza, dipinge il suo ultimo drammatico quadro: “Il cortile del manicomio” (1926). Si tratta di un’opera dai colori scuri, tristi e freddi, distante anni luce dai paesaggi solari e allegri della Bretagna dei primi anni, dal quale emerge tutta il suo disagio e la sua disperazione. Muore circa vent’anni dopo, passando da un manicomio all’altro e senza più toccare pennello e colori.
Di Gino Rossi si può senza dubbio affermare che sia stato il capostipite dei pittori d’avanguardia italiani e che può vantare una carriera esemplare, benché troppo breve. Purtroppo, com’è accaduto a tanti altri artisti sfortunati in vita – e il parallelo con Vincent Van Gogh è d’obbligo – la critica ha riconosciuto solo dopo la sua morte la sua grandezza e il suo straordinario contributo al rinnovamento dell’arte italiana. Nonostante la sua fortuna artistica sia postuma e l’impatto del suo lavoro sia tuttora poco ricordato, nel 2017, in occasione dei 70 anni dalla sua scomparsa, la sua città, Venezia, e la sua Ca’ Pesaro lo hanno commemorato nella ricca mostra “Gino Rossi a Venezia”. Dialogo tra le collezioni di Fondazione Cariverona e Ca’ Pesaro. Un genio solitario e rivoluzionario che non finiremo mai di riscoprire.