a cura di Romina Ciulli e Carole Dazzi
Il potere della Natura di autogenerarsi e di imporsi sulla realtà e sull’agire dell’uomo rappresenta una delle principali tematiche affrontate da Francesca Romana Pinzari nel suo percorso artistico. L’artista utilizza una serie variegata di media fra cui la pittura, la scultura, la performance, il video e l’installazione per indagare concetti come la memoria individuale e collettiva, e far emergere storie intime e in qualche modo ancestrali.
Un approccio dunque epistemologico messo in atto attraverso soggetti che richiamano il vissuto, il passato, l’antichità e perfino i miti primordiali. E che è teso all’esplorazione di un’identità non solo personale, ma anche assoluta, generale. Il suo lavoro, infatti, prende avvio da una metodologia performativa che inizialmente si incentra sul proprio corpo per poi estendersi verso aspetti culturali, religiosi, sociali, fisici e viscerali. Un procedimento quasi ritualistico, reso grazie a una commistione armonica di materiali differenti, con cui dà vita a esperienze emozionali nelle quali ogni individuo può identificarsi. Ed è proprio questo uso di forme materiche di genere diverso che permette all’artista di allargare la propria espressività, passando da un sostanziale esercizio di controllo sull’opera d’arte a una graduale e feconda perdita di controllo sull’opera stessa. Ecco allora nascere lavori come Hair Majesty (2011), Bestiario (2011), Chimere (2012), Cavalli (2012), video tra cui I ain’t superstitious (2009) o I am not (2011), fino al più recente progetto Casa Spina (2020). Parliamone con l’artista.
Il tuo percorso prende avvio da una modalità pittorica che ti garantiva una gestione procedurale piuttosto solida, per poi passare all’uso di elementi differenti, ma con una maggiore possibilità espressiva, che ti hanno consentito di allentare il controllo sullo stesso processo artistico. Può raccontarci come nascono i tuoi progetti?
La pittura figurativa è stata la mia primissima forma espressiva. Penso che le sue tracce siano ancora riconoscibili nelle mie opere recenti, nonostante negli anni la mia ricerca mi abbia portato a sperimentare altri tipi di linguaggio. Il lavoro nasce sempre da una intuizione che va colta e messa in atto. La tecnica con cui realizzo il lavoro dipende poi da molteplici fattori, a volte è insita nell’idea stessa, altre volte va calibrato il messaggio e deciso con quale mezzo rappresentarlo.
La Natura a livello concettuale è un elemento fondamentale della tua ricerca. Molti sono, infatti, i materiali naturali che utilizzi nelle tue sculture e nelle tue installazioni, da quelli organici, a quelli vegetali, fino ai minerali. Quali sono i motivi che ti hanno spinta a lavorare con questi elementi?
Per varie vicissitudini familiari sono abituata a essere a stretto contatto con gli animali e la natura fin da bambina. Ma l’utilizzo degli elementi naturali nel mio lavoro è arrivato all’improvviso, come una sorta di risveglio. Le spine di numerosi arbusti come l’acacia, il rovo o la rosa sono entrati a far parte della mia produzione circa otto anni fa con delle mie performance, durante le quali ho realizzato indumenti di rovi per poi indossarli e in seguito bruciarli. Subito dopo ho sentito la necessità di rendere quelle spine dei manufatti stabili. E nel 2015 prendono forma i primi lavori fatti con arbusti spinosi. Soltanto in seguito ho iniziato la ricerca sulla cristallizzazione dei sali creando io stessa dei minerali nel mio studio, ed ho poi unito le due tecniche che porto avanti ancora oggi sperimentandone nuovi aspetti.
Nell’opera Hair Majesty (2009-2011) i capelli sono il soggetto su cui si focalizza la tua attenzione. Si tratta di ritratti in cui ciocche di tuoi capelli e quelle prelevate dalle stesse persone raffigurate, sembrano intrecciare una sorta di racconto intimo tra la spiritualità della figura rappresentata, e l’immobilità decontestualizzata del corpo stesso. Puoi parlarcene?
Il primo lavoro realizzato con i capelli risale al 2009 e fa parte del progetto Love Preservation, durante il quale ho conservato in maniera surreale i feticci della mia relazione amorosa rendendoli opere d’arte. In mezzo a tutte le opere di quel progetto, quella con i capelli spiccava per la sua forza, il suo significato e il suo simbolismo. Ho avuto pertanto il desiderio di approfondire meglio quella ricerca. Sono così nate molte serie di lavori diversi, nelle quali ho utilizzato di volta in volta i miei capelli, crini di cavallo e capelli di altre persone. Ogni serie ha un messaggio e un significato preciso, pur avendo in comune il materiale utilizzato. Nei capelli sono contenute non solo le informazioni del nostro DNA, ma anche quelle del nostro stile di vita, il tipo di cibo che ingeriamo, le medicine, le droghe e l’inquinamento del luogo in cui viviamo. I miei lavori fermano nel tempo tutte queste informazioni rendendo l’individuo rappresentato immortale attraverso l’opera d’arte.
Nella tua ricerca anche la dimensione performativa assume un ruolo centrale. Il corpo, infatti, diviene un mezzo per esplorare concetti come l’identità culturale e religiosa. Pensi che questa pratica artistica generi nello spettatore una fruizione più intima, e che favorisca l’immedesimazione?
Un bravo artista, che sia anche un bravo performer, dovrebbe creare un legame empatico con i fruitori. Purtroppo oggi la performance va molto di moda, e dico purtroppo perché se ne vedono troppe in giro, spesso prive di significato, enfasi, cultura e sentimento. Personalmente ritengo che l’opera d’arte debba suscitare delle emozioni e non solo far riflettere su determinati argomenti. Non penso che la performance sia più coinvolgente della pittura, della scultura o di altre forme d’arte. È solo un mezzo espressivo verso il quale nutro un profondo rispetto e devozione. Tendo infatti a realizzarne davvero poche e le metto in pratica solo quando sento che l’azione che ho pensato e il modo di portarla a termine siano davvero coerenti, necessarie e coinvolgenti.
Successivamente nei tuoi lavori si avverte il passaggio da un’esplorazione più intimistica a una riflessione incentrata sull’identità collettiva. Nelle pitture Bestiario (2012), per esempio, o in Cavalli (2012), gli animali tutti diversi nella loro unicità come gli esseri umani stessi, fanno emergere le inquietudini e le paure dell’uomo contemporaneo, creando in questo modo un senso di comunanza ancestrale. In realtà non è proprio da questo concetto di appartenenza che emerge l’individualità costitutiva del singolo?
Siamo esseri unici e irripetibili. Eppure abbiamo un forte bisogno di appartenenza. Siamo animali sociali e apparteniamo al branco, come il branco appartiene a noi. Ognuno, con le sue straordinarie e uniche particolarità, è interconnesso con gli altri attraverso la fisicità e la spiritualità. Il singolo individuo e la collettività sono sempre strettamente legati. Anche nella mia produzione non sono mai stati scissi. Semplicemente in alcune opere un aspetto è più evidente dell’altro.
In Chimere invece (2011-2013), che fa parte di un progetto denominato Hair works, realizzi delle sculture di crini di cavallo. Ne deriva così una sorta di storia quasi sacrale, che cerca di indagare aspetti come l’intimità e la condivisione, il ricordo e l’illusione. Quanto l’aspetto simbolico degli oggetti diventa un modo per raccontare emozioni e archetipi dell’inconscio collettivo?
Un aspetto fondamentale di tutti i miei lavori è una sorta di ritualità di stampo performativo che emerge non solo nelle mie performance in pubblico, ma anche nella realizzazione delle sculture e installazioni. Sono azioni che faccio in solitaria e che nessuno può vedere, ma che si percepiscono attraverso la fruizione dell’opera finita. In Chimere in particolare si intuisce il tempo passato nelle scuderie a raccogliere i crini di cavallo e quello per realizzare centinaia e centinaia di piccoli nodi su ogni ciocca di crini. L’aspetto antropomorfo e zoomorfo di questi grandi esoscheletri sospesi che girano su loro stessi proiettando ombre mostruose a parete non è altro che la rappresentazione del nostro io più profondo fatto di angeli, demoni, illusioni, sogni e chimere. È la nostra parte più bella e al tempo stesso la più spaventosa.
Il tuo progetto più recente si intitola Casa Spina (2020): un’installazione messa in scena nello spazio espositivo di Casa Vuota a Roma. Una mostra “site specific” nella quale la Natura, attraverso elementi quali spine e cristalli, riacquista il proprio atavico potere di autogenerarsi, riappropriandosi di oggetti quotidiani, familiari e trasformandoli in opere d’arte inaspettate, evocative di un tempo perduto. Tutto questo genera nello spettatore una sensazione di sospensione, di atemporalità e di attesa indefinita, caricando la fruizione di aspetti psicologici, in qualche modo fantastici, ma anche aggressivi. Puoi raccontarci questa esperienza, anche alla luce degli eventi recenti che ci hanno colpito?
La mostra è stata inaugurata circa una settimana prima del primo lockdown. Quando finalmente abbiamo potuto riaprire i battenti insieme a Francesco Paolo del Re e Sabino de Nichilo, i curatori di Casa Vuota, ci siamo accorti di alcuni aspetti premonitori di quel progetto espositivo. Gli oggetti della mostra letteralmente cristallizzati all’interno di una casa chiusa parlavano di abbandono, violenza, attesa e reclusione. Ribellandosi alla loro funzione primaria diventano acuminati, impreziositi e corrosi. Posate spinose che non si possono più impugnare, sedie ribaltate sulle quali non ci si può’ più sedere, le scarpe del matrimonio di mia madre che cristallizzate con colori simili all’ametista non si possono più indossare, e quadri che perdono le loro sembianze originarie attraverso bruciature, cespugli spinosi ed escrescenze cristalline.
Nella tua ricerca artistica troviamo anche dei lavori video. Tra questi vogliamo citare I ain’t superstitious (2009), una performance intrisa di simbolismo, di archetipi e valori che vengono infranti. Qual’è il messaggio che intendevi comunicare?
I ain’t superstitious è stata la mia prima performance in pubblico, dalla quale poi ho tratto un lavoro video. Come sempre durante le mie azioni e i miei lavori cerco di superare i miei limiti, le mie credenze e le mie paure. Sono sempre stata molto superstiziosa, quindi ho dovuto usare tutto il mio coraggio per entrare in chiesa vestita da sposa di venerdì e calpestare circa 20 metri di specchi poggiati a terra, rompendoli uno ad uno sotto i miei tacchi. L’azione voleva parlare di tutte le tradizioni e le superstizioni legate alla nostra cultura che talvolta vanno superate e abbandonate. Questo perché non solo non rispecchiano più il tempo che viviamo, ma spesso portano retaggi di stampo patriarcale, repressivo, violento, razzista o, nei casi peggiori, misogino. D’altro canto la nostra cultura e le nostre tradizioni sono i ceselli con i quali siamo stati modellati e rinnegarli e abbandonarli è infruttifero, come il voler cancellare dei capitoli della nostra storia. Per questo la sposa infrange gli specchi sotto i suoi piedi e contemporaneamente va in frantumi anche la sua immagine riflessa.
Quali sono gli artisti che hanno ispirato nel tuo percorso artistico o ai quali ti inspiri attualmente?
Oggi posso dirti Mona Hatoum, Sophie Calle, Pierre Huges e Fiona Hall. Ma ammetto che dò una risposta diversa ogni volta che questa domanda mi viene fatta. Non solo perché la lista degli artisti che stimo e che seguo sia effettivamente molto lunga ed in continuo aggiornamento, ma anche perché a seconda del momento, del mio sentire e del mio fare arte, mi sento più vicina ad alcuni invece che ad altri.
Puoi parlarci dei tuoi progetti futuri?
Ho appena terminato un lavoro che farà parte di una grande mostra pubblica sull’arte italiana al Museo di Arte Contemporanea di San Paolo in Brasile che inaugurerà a fine Maggio. Inoltre ho altri progetti che sono temporaneamente sospesi e attendono di essere realizzati a fine emergenza. Nel mentre studio, mi documento, osservo e produco poche, ma sentite opere d’arte.
Biografia: Francesca Romana Pinzari è nata a Perth, in Australia, vive e lavora a Roma. Utilizza tecniche e materiali diversi, spaziando dalla scultura alla performance passando per l’installazione, la pittura e il video. I suoi progetti parlano di identità culturale, fisica e religiosa, la memoria e il rapporto dell’essere umano con la natura. Uno dei suoi cicli di lavori piu’ conosciuti e longevi è costituito da grandi sculture fatte di crini di cavallo e capelli intrecciati finemente dal forte richiamo simbolico e archetipico. Nei suoi ultimi lavori rami spinosi e concrezioni cristalline da lei create si fondono per dare forma a installazioni scultoree simili a preziosi ex voto che celano misteriosi rituali alchemici. Tra le principali esposizioni si ricordano: SuperNatural da Gilda Contemporary Art, Milano, Transition of Energy nei Musei di Kajaani, Kokkola e Kotka in Finlandia e alla Kunsthalle di Bratislava, la Performance Night al Museo Galeria Miejska BWA Bydgoszcz, in Polonia, la mostra Nonostante tutto, Galleria Oltredimore Galleria + di Bologna, il Bethanien Museum di Berlino con una project room di 24h per la mostra Arty Party.