Who’s next?… Anna Banti

Scritto da Valentina Biondini, appassionata di letteratura

“Who’s Next?” si occupa questa volta di un talento femminile tra i più eclettici del Novecento italiano, a torto misconosciuto. Ci riferiamo ad Anna Banti, nom de plume della poliedrica Lucia Lopresti, storica dell’arte, critica letteraria, teatrale, cinematografica, traduttrice e, soprattutto, scrittrice italiana del secolo scorso. È proprio questa sovrapposizione di contesti artistici, insieme alle tematiche femminili e autobiografiche, che renderanno il suo modus scrivendi originale e inconfondibile per il panorama letterario dell’epoca.

Lucia Lopresti nasce a Firenze nel 1895. Come figlia unica di una famiglia di origine siciliana, riceve un’educazione che possiamo definire libera.  I suoi genitori, ai quali è molto legata, le permettono infatti di scegliere autonomamente e di viaggiare. Il padre in particolare, Luigi-Vincenzo, avvocato delle Ferrovie, vista la naturale propensione della figlia, la sprona a intraprendere gli studi umanistici. Tuttavia la sua è un’infanzia solitaria. Si sente poco capita dalla madre, e come rimedio consolatorio si rifugia ben presto nella scrittura. Trascorre l’infanzia prima a Bologna, poi a Roma e infine di nuovo in Toscana. A scuola, per il suo carattere schivo e indipendente, viene bollata come strana e femminista. Scrivere pertanto diverrà per l’artista non solo un mezzo per scandagliare quei sommovimenti interiori che la pungolavano, ma anche per rivelare la sua vera indole. Anni dopo farà infatti dire a uno dei suoi personaggi femminili: «Il nero su bianco è un rischio, ma anche un esorcismo». Durante l’ultimo anno di liceo fa due incontri che le cambieranno la vita: con la storia dell’arte e con Roberto Longhi, suo professore e storico dell’arte, che la fa innamorare. Tra i due nasce non solo un grande amore, ma anche uno straordinario sodalizio intellettuale che durerà per tutta la vita. Dopo il matrimonio, però, la Banti giunge a una decisione che cambierà il corso del suo destino: accantonare la storia dell’arte per dedicarsi alla scrittura. Poiché il marito è già uno storico dell’arte affermato, Lucia decide di tentare il successo in un altro settore. Insomma proprio quando il suo percorso di studi l’avrebbe naturalmente portata a interessarsi di arte, a seguire il marito a Parigi e Londra, ad approfondire forme e pennellate di opere artistiche, succede qualcosa di imprevisto. Davanti ai quadri si accorge di essere coinvolta più dalla storia ritratta che dal dipinto stesso. Ed è proprio da quelle tele che cominciano a emergere le sue storie e a prendere vita i suoi personaggi.

La sua avventura come scrittrice ha inizio nel 1930, con la pubblicazione del racconto “Barbara e la morte”. Parallelamente nasce il suo pseudonimo, Anna Banti, che definisce come: «Il mio vero nome, quello che non m’è stato dato né dalla famiglia né dal marito». Ma chi è davvero Anna Banti, la sublime maschera dietro cui sceglie di celare la propria identità? Questo nome era appartenuto a una nobildonna elegante e misteriosa, parente di sua madre. Una signora, sempre velata di bianco, che attira la curiosità della Lopresti sin da piccola e che rispunta fuori nel momento in cui deve decidere come firmare le proprie opere. «Del resto il nome ce lo facciamo noi. Non è detto che siamo tutta la vita il nome della nostra nascita», afferma in un’intervista del 1983. Con l’esordio del 1930 prende avvio una produzione vasta e di lunga durata, il cui arco temporale termina nel 1981, circa cinquant’anni dopo la prima opera e quattro prima della morte. In totale comprende sette raccolte di racconti, nove romanzi e numerosi saggi. Questi ultimi appaiono in maggioranza su “Paragone” la rivista di Arte e Letteratura, fondata col marito nel 1949. Il mensile svolge un ruolo di rilievo nella storia della letteratura italiana del ‘900, ospitando tra le sue pagine alcuni degli scrittori italiani più in voga, come Ungaretti e Pasolini. La Banti dirige la parte letteraria della rivista, per poi assumere la direzione della sezione artistica alla morte del marito nel 1970. La vocazione narrativa fu dunque sempre uno stimolo non solo di creatività, ma anche e soprattutto di indipendenza personale. Già nelle sue prime opere sono evidenti i temi che contraddistingueranno tutta la produzione artistica. Ossia l’attenzione rivolta alla condizione femminile e l’introspezione psicologica. 

Tra le sue numerose opere di narrativa vale la pena menzionare: “Itinerario di Paolina” (1937) suo primo romanzo e autobiografia trasposta, “Il coraggio delle donne” (1940), “Sette lune” (1941), “Le monache cantano” (1942), “Artemisia” (1947) il suo romanzo più noto nonché il suo primo vero successo, “Le donne muoiono” (1951), “Il bastardo” (1953), “Allarme sul lago” (1954), “Noi credevamo” (1967) riportato alla ribalta dall’omonimo film di Mario Martone nel 2010, “La camicia bruciata”(1973) e “Un grido lacerante” (1981), l’ultima prova che conclude idealmente il cerchio aperto con la sua prima opera, dal momento che in entrambi i casi si tratta di autobiografie trasposte. Tra quelli appena elencati, “Artemisia”, “Noi credevamo” e “La camicia bruciata” sono classificabili come le sue grandi interpretazioni storiche. Infatti la Banti preferiva definire i suoi romanzi non tanto storici, quanto delle «interpretazioni poetiche della storia». Del resto quello che la scrittrice portò avanti fu un genere letterario completamente personale, nel quale l’invenzione storica divenne l’espediente per riportare l’attenzione sulla condizione delle donne, o meglio sul loro allontanamento dalla storia. L’intento della Banti sembra, infatti, quello di denunciare la mancanza dalla memoria storica tradizionale di un passato “al femminile”. “Artemisia”, in particolare, è il suo capolavoro letterario. L’opera narra la vita romanzata della pittrice secentesca Artemisia Gentileschi, figlia incompresa del pittore Orazio, disonorata da Agostino Tassi, pittore a sua volta, condannata a un’esistenza di solitudine e diversità in quanto donna e per di più talentuosa. Insomma una «donna eccezionale, né sposa né fanciulla», in lotta contro i pregiudizi del suo tempo che, nonostante le avversità, decide di far vedere a tutti chi è davvero, cioè una una pittrice talentuosissima. È stato notato come questa eroina riassuma su di sé i maggiori interessi della sua autrice: la pittura, la scrittura, il concetto di talento e il modo complicato di affermarlo quando si nasce donne. Del resto molti critici, tra cui Gianfranco Contini, confermano che il grande tema che sta alla base della produzione della Banti è proprio quello della condizione femminile. Le donne bantiane sono, infatti, essenzialmente donne “contro”. Contro i padri, i mariti e gli amanti che le annichiliscono. Sono donne che la memoria storica ha cancellato, mentre all’opposto ha conservato quella dei loro mariti. Un concetto che emerge in maniera lampante nella raccolta “Le donne muoiono”.

Si delinea così con più chiarezza il genere letterario della Banti. Ossia interpretare la storia colmandone le lacune con l’immaginazione e assumendosi il compito di raccontare donne che non sono mai state raccontate, delle quali sembra non essere rimasto alcun segno nella memoria ufficiale. La sua è, dunque, un’operazione epistemologica e storiografica al pari, nonché precedente, alle prove di Linda Nochlin in “Perché non ci sono state grandi donne artiste?” o Lea Vergine in “L’altra avanguardia”. E, dal momento che scrive sempre di donne, le viene subito appiccicata addosso l’etichetta di femminista. Il suo, però, è un femminismo intimo e non militante, forse all’inizio persino inconsapevole. Certo il femminismo di Anna Banti si esprime attraverso storie di donne/eroine se vogliamo infelici, intrappolate nelle loro vite prestabilite, che cercano di sottrarsi al loro destino. Forse allora il vero tema della sua narrazione è la solitudine della donna, sempre alla ricerca della propria dignità e del riscatto. Ed è proprio questo desiderio di riscattare la condizione femminile che la scrittrice tratteggia nelle sue storie, utilizzando un genere ibrido, a metà tra autobiografia e finzione, nel quale le sorti dei suoi personaggi si ribaltano, e lasciano spazio alla possibilità reale di un cambiamento. E insieme alle sue eroine, anche Lucia/Anna si riscatta, liberando con la potenza creativa della scrittura, l’intraprendenza di tutte le donne e anche la sua. A questo punto viene naturale chiedersi come mai una figura unica e inconfondibile nel panorama italiano come quella della Banti sia così poco nota. È stato detto che la sua caratteristica principale fosse l’orgoglio intellettuale. Non voleva, infatti, essere confusa con gli altri, e conduceva una vita ritirata, dedicandosi alla scrittura in maniera feconda, ma nascosta. Una fine studiosa che faticava a trovare sé stessa e che dietro la facciata granitica di donna di potere (era comunque la codirettrice della rivista “Paragone”, dunque per decenni aveva esercitato un potere, almeno in campo editoriale) celava un’inquietudine sotterranea e strisciante, come emerge dalla sua ultima biografia trasposta “Un grido lacerante”. Dunque, una figura rispettata, omaggiata e riverita, ma guardata da lontano. Una colta critica dell’arte prestata alla narrativa (o viceversa?), la cui prosa ricca, elegante e barocca – è proprio il caso di usare quest’aggettivo, data l’onnipresente contaminazione in lei tra arte e letteratura – rimaneva distante dal pubblico medio e dai suoi gusti più immediati e prosaici. Un’artista tuttavia che si è impegnata con le sue opere a preservare la propria identità e quella di tante altre donne, lasciandocene così indelebilmente traccia.

 

 

 

 

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